Il black-out di Facebook è stata un’occasione interessante per i media. Giornali e telegiornali hanno infatti potuto applicare al network il solito teorema privo di proporzioni, qualcosa che fa leva sulla mole immensa del network per scaricare sui singoli un’emotività in realtà difficile da riscontrare. Ancora una volta, quindi, tutto quel che riguarda Facebook si distorce nel passaggio dai bit alla realtà, trasformandosi in una caricatura del network stesso.
La realtà è stata quella di un problema che ha occupato i server ed i tecnici per appena 2 ore e mezza. Si potrà dire che 2 ore e mezza nell’arco di quattro anni siano ben pochi, ma 2 ore e mezza nell’arco di 2 ore e mezza significa un modello perfetto per applicarvi anzitutto il catastrofismo. Nascono da qui, quindi, i primi timidi teoremi complottisti che vedono nel blackout possibili attacchi esterni all’infrastruttura, qualcosa presto smentito semplicemente non confermando. Nemmeno il tempo di accorgersi del problema, infatti, e già il network aveva risolto i propri problemi di cache e riavviato il normale funzionamento delle attività. Nascono di qui anche elucubrazioni ulteriori, quelle generate sul calcolo di quanto la produttività sia aumentata in quelle ore in cui il passatempo preferito di mezzo miliardo di persone non era raggiungibile.
2 ore e mezza forse sono state anche poche per sviluppare inoltre i soliti teoremi legati all’Internet Addiction. Qualcuno ci ha provato in realtà, sfruttando l’occasione strumentalmente per ricordare quanto fragile possa essere l’ossessione compulsiva di quanti aggiornano il proprio status continuamente nutrendosi di Facebook dal mattino alla sera. La realtà è quella di una tecnologia che sì permea le nostre vite di continuo, ma non più di quanto non lo abbiano già fatto altri medium in precedenza (dalla tv al telefonino, ognuno a modo suo, ognuno nel suo momento di massimo splendore).
Il blackout diventa quindi un’occasione ghiotta per i media che intendono coprire a tutti i costi una notizia che con tutta sicurezza raccoglie le attenzioni di oltre 500 milioni di utenti in tutto il mondo. Ogni commento in proposito è stato però futile, forzato e deviante. Non è un caso quindi se i toni usati sono stati quelli della catastrofe, se le ore di blackout sono passate dalle 2,5 alle 4 o più indicate in vari reportage: Facebook è il luogo delle caricature ed è rimasto vittima del proprio successo più o meno al pari di quel che succederà a Mark Zuckerberg quando il film dedicato al network farà capolino nelle sale.
Il blackout di Facebook (iniziato alle 20.39 ora italiana) è però stato anche un’occasione perchè, come in ogni eclissi che si rispetti, una volta eliminata la fonte di luce emergono i dettagli più importanti e normalmente invisibili ad occhio nudo. Ci si accorge così di quanti siti siano ormai occupati dai widget e dai “mi piace”. Ci si accorge di quanto il social networking abbia costruito un legame con utenti che, in assenza di Facebook, si sono riversati su Twitter avviando una immediata bolla di metacomunicazione a cavallo tra i due network. Ci si accorge quanto non sia scontato quel che ci si trova sempre sotto gli occhi e quanto sia fragile e complessa una immensa infrastruttura tecnica come quella che organizza i server di Facebook. Ci si accorge del fatto che Twitter è un network su cui rimbalzano molti link e pochi concetti, dove 140 caratteri sono sufficienti in troppi casi soltanto a segnalare e non a lasciare un segno. Non senza simpatia, sia chiaro:
BREAKING NEWS: Facebook down due to explosion in Farmville’s manure composter. Five million people forced to work.
Ci si accorge in due ore e mezza quanto un sito nato in una università sia oggi un riferimento a cui tutta la rete guarda. In quattro anni ha colonizzato il Web permeandone le attività un “mi piace” dopo l’altro.
Poi però tutto riparte e ci si accorge soprattutto che non v’è stato alcun risentimento di massa, non v’è stato alcun attacco, non v’è stato alcun disagio insopportabile. Hanno soltanto spento Facebook per due ore e mezza. Quanto basta per far notizia e nulla più. Per questo, anche chi ha provato a ricamarci su panico e catastrofe, ne è uscito con un sorriso e la scappatoia dell’ironia.