Industriali della musica, è finito il tempo di criminalizzare lo scambio file sulla rete. Ora il gioco passa nelle vostre mani, è tempo di rivolgere a favore di voi stessi la tecnologia e non di combatterla. Con queste parole, pronunciate alla platea del “In the City”, una conferenza sulla musica digitale ospitata dal comune di Manchester, il giornalista tecnologico di The Register Andrew Orlowski ha spronato i suoi ascoltatori a prendere sul serio il problema.
Ma non è finita. Orlowski ha anche messo sul piatto della bilancia la soluzione: «Basta cercare di impedire il file sharing, e iniziamo a prenderlo in considerazione. Cercate di recuperare i soldi in qualche altra maniera. Potrebbe essere una tassa, potrebbe essere un’imposta sulla bolletta del telefono oppure sulle connessioni a larga banda. Potrebbe anche essere una tassa sugli impianti stereo o una tassa sull’iPod».
E ancora: «Se riusciamo a ricompensare una piccola parte di quello che voi [le case discografiche, ndr] dite di perdere; per meno di un pacchetto di patatine a settimana per ogni famiglia il problema della pirateria musicale scomparirebbe».
La soluzione è comparsa varie volte nei dibattiti sul diritto d’autore, e in alcuni casi è anche stata messa in atto, seppure in modo parziale e senza contropartita per gli utenti.
In Italia, ad esempio, sin dal 2003 vige un regime di tassazione dei supporti digitali di archiviazione, come CD o DVD; il recente decreto legge Urbani ha addirittura esteso questo regime includendo nella tassazione anche i masterizzatori e i software per la masterizzazione. In Germania e in Francia avviene già qualcosa di simile.
Una proposta molto simile a quella espressa da Andrew Orlowski è stata formulata anche dalla Electronic Frontier Foundation (EFF) lo scorso febbraio 2004. In un documento intitolato “A better way forward” (‘un modo migliore per andare avanti’) l’EFF, l’associazione che si batte per lo sviluppo equilibrato della tecnologia e del suo valore sociale, aveva gettato le basi per un discorso lasciato cadere troppo presto.
La proposta era quello di una “licenza volontaria collettiva“, fissata dall’associazione in 5 dollari al mese, da far pagare agli utilizzatori di programmi di file sharing. A raccoglierli sarebbero le Università, i provider di banda larga, i venditori di software peer-to-peer, tutti gli individui coinvolti nel processo di P2P.
Le associazioni musicali hanno sempre risposto con un no secco alle proposte di questo tipo. Una portavoce della IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), l’associazione internazionale dei produttori di musica digitale, ha dichiarato alla BBC che «le strategie dell’industria musicale sulla rete internet stanno funzionando e ci sono ottime notizie sul mercato della musica online legale».
Il mercato della musica legale sarebbe forse il primo ad essere colpito. Tuttavia, spiegano gli autori, è vero il contrario. Il mercato potrebbe assorbire più delle proposte attualmente in circolazione e gli stessi servizi che oggi sono a pagamento potrebbero riconvertirsi al modello peer to peer, entrando in competizione con Kazaa, eDonkey e i software attualmente utilizzati per lo scambio file. Un mercato così liberato, in più, potrebbe funzionare come amplificatore di altri settori: dalla banda larga al software sino ai riproduttori digitali, come il famoso iPod.
Il dibattito sta prendendo piede anche in Italia. Su forum e siti web compaiono le prime discussioni e le prime prese di posizione e mai come in questo momento potrebbe essere utile una dialettica su tali argomenti. Da poche settimane una Commissione Interministeriale ospitata dal Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie sta mettendo a punto alcune di proposte sulla gestione, anche normativa, dei contenuti digitali online. In questa discussione anche il Peer to Peer dovrà trovare una sua collocazione. Si spera degna.