Diciamocelo: sono stati in pochi a lanciare un «wow» quando Windows Vista arrivò sul mercato dopo mesi e mesi e mesi di ritardo e attesa. Diciamocelo: il «wow» non c’è stato neppure per la PlayStation3, sebbene attesa come un vate. E diciamocelo: la storia del «wow» la si può più o meno riciclare anche con l’iPhone, con quel telefono di cui per ora non si è parlato sono nei trafiletti di cronaca nera (anche se le bombe di Londra erano in qualche modo nei paraggi dell’Apple Store e si è sfiorata dunque anche la colonna della cronaca).
Sta tutto nell’attesa. Il piacere è lì, dicevano i poeti, è tutto nell’immagine che si proietta di un dato momento. Creare attesa significa creare ansia, desiderio e bisogno. Significa mettere un oggetto davanti al cliente, ma non farglielo vedere se non un pezzo alla volta, così che l’immagine che viene ricostruita sia frammentaria. Lo stress emotivo è una componente tanto artificiale quanto necessaria. Quello che manca tra un pezzo e l’altro sarà l’utente a crearlo, come in un restauro mentale in cui inevitabilmente si cerca la soddisfazione dei propri desideri. È un procedimento attuato tutto a livello di ormoni e di sinapsi, di inconscio e appetito (meglio: golosità): se la ragionevolezza non si frappone ecco che l’utente diventa cliente quasi senza accorgersene, sentendosi parte attiva in quel successo che il «wow» instillato dall’alto descrive. Completare un’immagine frammentaria significa partecipare alla sua creazione e lega inscindibilmente committente, oggetto e cliente: trattasi di un processo tanto vecchio e conosciuto, quanto attuale e funzionante. Gli esperti lo sanno, gli utenti anche, ma il naufragar è sempre dolce in quel mare che culla i desideri e riempie di promesse high-tech.
Fifth Avenue, New York (immagini Apple)
Nel 1988 Zimmerman definì la cosa come “empowerment”, ovvero come la necessità da parte della persona di sentirsi attore principale della propria esperienza. Sui blog di commento, nelle foto in coda, nell’acquisto, nei filmati di recensione: a libero e volontario servizio di chi in quel momento sta deliberatamente cercando rumore e visibilità. In questo caso è nuovamente bastata la formuletta magica di Steve “Harry Potter” Jobs e il meccanismo si è rimesso in moto: malati di empowerment e drogati di innovazione, in tanti si son trovati in fila per poter dire “io c’ero”. Oppure “io ce l’ho”.
L’iPhone è sul mercato. Le scene di giubilo per i primi acquirenti si sommano alle immagini posticcie delle celebrità in coda ed anticipano di poche ore tutta una serie di recensioni che, telecamera alla mano, partono dallo spacchettamento del prodotto fino alle funzionalità di base ed alla prova su strada. L’incipit è il «wow», poi tutto è lasciato al marketing “user generated”: l’attesa sui blog; le code; i filmati. Ed in tutto ciò, appena una manciata di dollari investita in pubblicità.
A titolo informativo, nelle prime ore dell’iPhone:
- gravi problemi di attivazione: CNet riporta di aver dovuto attendere addirittura 39 ore prima che AT&T si decidesse a dare il via libera all’uso del prodotto;
- la scarsità che Jobs auspicava nelle prime ore non si è manifestata con troppa enfasi: i negozi sono stati carichi di iPhone per tutto il tempo e solo oggi le prime corpose segnalazioni di “sold out” iniziano a pervenire; la vendita è stata forte, insomma, ma non oltre quel limite oltre il quale si sarebbe parlato di incomparabile successo: le stime parlano di 525.000 iPhone venduti nel weekend;
- molti tra gli utenti in coda avrebbero voluto rivendere l’iPhone su eBay lucrando sulla cosa ed ottenendo così giusta remunerazione per l’impegno prestato nell’acquisto. La vendita online, però, andrebbe a rilento e non sarebbe troppo lucrosa: tra domanda ed offerta non c’è ancora una forbice così estesa da motivare un acquisto “folle” ed i più son ben disposti ad attendere ancora un po’ (nel frattempo le code si esauriscono e l’iPhone arriva alla distribuzione tramite il web);
- qualcuno potrebbe evitare di pagare l’abbonamento ad AT&T virando su altri pacchetti pre-pagati. La cosa sarebbe riservata ad utenti morosi che non hanno criteri finanziari adeguati per poter accedere ad una promessa di abbonamento anticipato di 2 anni (ma che, nonostante tutto, non possono fare a meno di accedere al gioiellino);
- le prime impressioni sono positive: ognuno restituisce un proprio punto di vista, ma la sensazione è quella del “molto bello, ma niente di eccezionale”. Pregi e difetti ballano il solito walzer, tutto è clamorosamente normale (anche se così non avrebbe dovuto essere se, come molti promettevano, la straordinarietà avrebbe dovuto permeare sotto ogni aspetto).
Rendere ordinario lo straordinario: è questo l’obiettivo primario del marketing. Stimolare giorno dopo giorno il ciclo virale del desiderio e delle risposte, del bisogno e dell’acquisto, è la corsa a cui le grandi aziende concorrono quotidianamente. La moda è questo: tutti vogliono differenziarsi, pur omologandosi. L’iPhone è stato in tal senso l’ennesimo successo a priori di Apple: il telefono di cui nessuno sentiva la necessità, ora è un bisogno a cui molti non riescono più a rinunciare. Non c’è costo che tenga: si vuole poter essere parte del «wow», scrivere una riga nel romanzo dell’innovazione e recitare da protagonisti almeno per un momento in un film che si suppone debba passare alla storia.
Negli States sono probabilmente tutti più garibaldini in questo delirio di massa. In Europa un maggiore equilibrio (nonostante l’imperante americanizzazione) è cosa risaputa, dunque alla prossima ondata ci saranno forse meno «wow» e più materia prima. L’iPhone sta per arrivare in Europa, ma il suo successo qui fiorirà su un contesto differente. Ci hanno volutamente lasciati un passo indietro: mentre di là finiscono le code, di qua inizia l’attesa. Godiamocela, perchè il piacere è tutto lì. WOW!