La concomitanza dei tempi sembra permettere un collegamento diretto con l’esperimento di Venezia, ma nel comunicato non v’è traccia esplicita della città lagunare: Assoprovider ha infatti diramato un’analisi piccata contro le derive Wifi che stanno portando alcune città italiane a sviluppare reti per la connettività pubblica gratuita. Quello che a Venezia è stato visto come un diritto imprescindibile, Assoprovider lo vede dal punto di vista del business chiedendosi se ogni procedura sia stata compiuta lecitamente, evitando di favorire pochi operatori e portando avanti progettualità realmente efficaci ed equilibrate.
«In tutta Italia si susseguono iniziative volte alla creazione di reti wifi gratuite sovvenzionate dalle pubbliche amministrazioni: ma i cittadini sanno quanto pagano indirettamente ed a chi? Questa è la domanda che Assoprovider pone ai cittadini affinché le PA facciano chiarezza sulle risorse economiche impegnate per realizzare reti WiFi “gratuite” e sulle aziende che vengono pagate con i soldi della collettività (di tutti) per realizzare (di certo non gratuitamente) le infrastrutture necessarie per il WiFi; infrastrutture che oltretutto avvantaggiano solo alcuni cittadini, quelli dotati dei mezzi per utilizzare Internet solo dove presente la copertura WiFi e indipendentemente dalla loro capacità economica». Quel che è gratuito per il privato, infatti, è invece un costo che va a scaricarsi sui conti pubblici. Oltre ad implicare ovvi discorsi relativi alla sostenibilità dei progetti (i precedenti degli USA non lasciano ben sperare), v’è infatti anche un riscontro ulteriore da analizzare: la spesa pubblica impone analisi precise sulle modalità di spesa e sugli attori interessati. Ed è su questo punto che prosegue l’attacco di Assoprovider.
«Assoprovider ribadisce che il contributo economico pubblico che le PA vogliono dare per abbattere il Digital Divide del proprio territorio non deve agevolare un operatore economico a discapito di un altro ma deve essere l’occasione per creare infrastrutture “intermedie” (wholesale) utilizzabili da qualsiasi operatore alle medesime condizioni economiche: solo così vi è la certezza della sua efficienza ed efficacia. In caso contrario è facile che divenga l’ennesima occasione di arricchimento dei soliti noti a danno delle piccole aziende legate al territorio che realizzano infrastrutture senza godere di alcun aiuto pubblico con evidente distorsione del mercato e/o, peggio ancora, col rischio di gestioni economiche oscure».
Dopo la critica, però, c’è anche la proposta: «La soluzione per risolvere, anche con il contributo economico della collettività, le problematiche di Digital Divide esiste e si chiama gestione wholesale disaggregata con accesso non discriminatorio per tutti gli operatori». Probabilmente, però, le amministrazioni impegnate su simili progetti compiono una palese distorsione della definizione del problema. Non si risolve il digital divide, infatti, agendo con reti pubbliche. Il digital divide va risolto casa per casa, costruendo una nuova rete nazionale e completando l’opera di liberalizzazione sull’ultimo miglio. Assoprovider sembra avere le idee chiare in merito: e rivendica, tra le righe, un ruolo preciso.
Non troppo distante da queste posizioni è anche l’Associazione Italiana Internet Provider, la quale aggiunge inoltre: «AIIP auspica altresì che tali reti wi-fi vengano aperte al “roaming” di tutti gli operatori interessati a favorirne l’utilizzazione da parte dei propri utenti, ricordando anche gli aspetti che riguardano la sicurezza e che gli operatori ad essa associati già rispettano. Occorre poi che l’uso gratuito abbia delle limitazioni in modo da non sovrapporsi alla offerta degli operatori, ma da esserne un utile complemento».