Ha forte eco internazionale il processo in corso in Italia contro Google Video, processo che vede al centro delle accuse un filmato caricato nel 2006 da un utente e ritraente una serie di percosse subite da un ragazzo affetto da sindrome di Down. L’ultima udienza era avvenuta lo scorso 23 Giugno, ma l’inciampo fu clamoroso: in mancanza di traduttori, i responsabili di Google non potevano essere interrogati. Tutto fu rinviato pertanto al 29 Settembre, quando l’interrogatorio ha avuto corso a porte chiuse e l’azienda di Mountain View ha potuto portare avanti le proprie ragioni spiegando come e perché siano state approntate certe scelte nello sviluppo del proprio servizio di videosharing (le cui funzioni sono oggi confluite in YouTube).
Il caso verte su di un principio specifico riassumibile con le parole dell’ex-Ministro per la Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, il quale all’avvio del procedimento dichiarò che «il principio di responsabilità non può essere declinato a seconda del mezzo di trasmissione su cui viaggia un reato». Secondo l’accusa, infatti, Google non può esimersi da un controllo preciso e puntuale sui materiali caricati e pertanto deve accollarsi tutte le responsabilità relative a quanto ospitato sui propri server. Quel che la logica boccia, però, la legge deve dimostrare. Ed è su questo punto che è stato incentrato l’intervento dei responsabili di Mountain View (al centro dell’accusa, va ricordato, il chief legal officer David Drummond, il responsabile della policy sulla privacy per l’Europa Peter Fleischer, il Chief Financial Officer George Reyes ed il responsabile europeo di Google Video Arvind Desikan). La testimonianza raccolta a Milano è stata quella di Jeremy Doig, uno degli ingegneri coinvolti nello sviluppo del sito incriminato.
Marco Pancini, European Senior Policy Counsel di Google, ci spiega: «abbiamo voluto fornire informazioni tecniche sul funzionamento di Google Video e dei siti di sharing, evidenziando come l’uso di un sistema censorio preventivo basato su parametri quali le keyword sarebbe altamente fallace. Affidare il controllo agli utenti mediante le procedure di segnalazione dei video offensivi, invece, permette una efficacia molto maggiore». Va ricordato, infatti, come il video sia stato rimosso prima ancora dell’ordinanza della magistratura: a portare offline il filmato, pertanto, è stato il meccanismo di segnalazione e non l’ordine di una procura. Mentre il Pubblico Ministero porta avanti la tesi secondo cui dovrebbe essere responsabilità di Google avere un sistema (umano o elettronico) di filtraggio preventivo del materiale caricato, la difesa ha invece spiegato come solo un meccanismo aperto e proattivo permetta da una parte di bloccare sul nascere i materiali illeciti, e dall’altra di scoprire gli illeciti stessi. Va infatti notato come da più parti sia emerso il fatto che proprio dal piccolo filmato portato su Google Video sia stato possibile scoprire le angherie che il ragazzo subiva all’interno delle mura scolastiche.
«Siamo soddisfatti per la testimonianza» confida ancora Pancini: »siamo fiduciosi del fatto che le informazioni tecniche che abbiamo apportato possano ben delineare la bontà delle scelte approntate». Google in questo momento può peraltro far leva sulle risultanze dello studio Bruno Leoni (pdf), una lunga analisi approfondita che mette sul bilancino le opportunità della censura ed i pericoli della stessa. Il tutto senza dimenticare la necessaria garanzia per la libertà di espressione, un concetto che (si spiega nello studio), va ripensato e riconsiderato alla luce delle novità introdotte dalla tecnologia: «Da un punto di vista filosofico-politico si può osservare che la compatibilità di delitti come la diffamazione e, in misura minore, le violazioni della privacy con l’architettura ed i principi di una società libera sia aperta a discussioni. […] è proprio nella tutela di opinioni discutibili e, talora, ripugnanti che la libertà d’espressione si manifesta in tutto il suo vigore».
Lo studio Bruno Leoni distilla le normative tirate in ballo dal caso e dimostra non solo l’assenza di responsabilità per Google, ma anche l’impossibilità di riconoscervi un profilo colpevole in qualità di semplice intermediario. Anzi: in relazione all’ipotesi per cui l’attività di Google abbia un qualche profilo editoriale, allora occorrerebbe tirare in ballo anche le tutele previste per questo tipo di attività, il che renderebbe più complesso un discorso che necessita di essere valutato “a tutto tondo”: «Dovrebbe essere chiaro a chiunque che la predisposizione di un servizio di pubblicazione di contenuti ad accesso libero non può implicare le medesime aspettative di supervisione e controllo che sussistono in capo all’editore per i prodotti da questi pubblicati. Da questo punto di vista non ha importanza alcuna la circostanza che Google Video non sia offerto agli utenti per spirito di liberalità ma sia piuttosto sostenuto, ed eventualmente reso profittevole, da un sistema di inserzioni pubblicitarie. […] Ipotizzando per mero esercizio intellettuale che il video fosse comparso, ad esempio, sul sito di un grande quotidiano, mi pare plausibile sostenere che la condotta oggettivamente diffamatoria sarebbe risultata discriminata dal diritto di cronaca. Ciò mi pare implicare che, semmai s’intendesse attribuire a Google una responsabilità simil-editoriale (in modo – lo ribadiamo – del tutto erroneo), sarebbe contraddittorio non accompagnarla con le relative tutele che l’ordinamento riconosce alla stampa, e primariamente proprio l’ombrello del diritto di cronaca».
In più, in caso di decisione avversa si scatenerebbe una serie di conseguenze a catena totalmente deleterie per l’intero comparto: «peccherebbe d’ingenuità grave chi ritenesse che gli effetti del caso investano
un’unica azienda ed i soli quattro sfortunati imputati – per i quali, va detto per la verità, la prospettiva della detenzione è ben più remota di quella della condanna […] Il processo è destinato a costituire un precedente illustre nella storia e nella teoria della regolamentazione di internet e dispiegherà la sua efficacia negli anni a venire. È facile prevedere che laddove il tribunale milanese individuasse – contro il diritto nazionale e comunitario – una posizione di responsabilità dei fornitori di servizi – ed in particolare di servizi di video sharing – per i contenuti caricati dagli utenti, si determinerebbe una drastica riduzione nella fornitura di questi servizi. Si tratta di conseguenze indesiderabili, in primo luogo dal punto di vista economico, determinando un cambiamento imprevedibile nell’ecologia di internet e dei servizi innovativi, il cui sostrato più importante è proprio la libertà di sperimentare nuovi modelli e nuove tipologie di business. Si tratterebbe, infine di una sconfitta grave per la libertà d’espressione, che ne uscirebbe gravemente indebolita per la necessità dei provider di porre in essere un controllo inattaccabile e salvaguardarsi da qualsiasi conseguenza legale».