Oltre a tutto il resto delle attività remunerative che già porta avanti, Google sembra poter essere in grado di mettere in cassa, ogni singolo anno, circa 500 milioni di dollari per errore. Ma l’errore non è il suo: l’errore è quello di chi sbaglia a digitare un indirizzo sul Web, finendo così su siti aventi nomenclatura similare e ritrovandosi davanti un muro di advertising su cui Google ha saputo metterci lo zampino.
Ci sono due modi per approdare ad un sito Web: cercarlo su di un motore di ricerca, oppure digitando direttamente l’url. Nel primo caso ci si imbatte in AdWords, gli spazi pubblicitari che il motore propone a fianco alle SERP; nel secondo caso o si digita correttamente l’indirizzo (e si incontrano quindi regolari AdSense presenti su molti siti web), oppure si sbaglia e si incontrano siti creati spesso ad arte per sfruttare tale “trash traffic“. Trattasi di qualcosa di difficile monetizzazione che Google ha in qualche modo raccolto, disseminando piccole cifre che per la casa madre sembrano possano però assommare a quasi 500 milioni di dollari.
La stima è quella dei ricercatori Hardvard Tyler Moore e Benjamin Edelman (pdf). Secondo i loro calcoli, basati su di un campione di siti aventi url in qualche modo simile ad altri referenti ufficiali di maggior importanza, l’insieme degli errori in digitazione è in grado di creare un flusso pari a 68.2 milioni di visite giornaliere in tutto il mondo sui soli “.com”. Complessivamente, spiegano i ricercatori, un sito con un flusso simile sarebbe circa decimo a livello mondiale, più popolato ancora di Twitter, MySpace o Amazon. Di questo flusso Google sembra saper cogliere il 57% delle pagine (pur palesando intenti bellicosi nei confronti del typosquatting e ritirando la propria offerta nel caso in cui fosse evidente il dolo del dominio registrato), il che in proiezione significa circa 497 milioni di dollari annui.
Google e il Typosquatting
La ricerca dimostra però anche come dietro questo fenomeno vi sia una sorta di dolo evidente. Le pagine contenenti il codice per l’advertising Google, infatti, avrebbero in molti casi medesimo ID, il che indica la presenza di pochi partner in grado di monetizzare gran parte di siti che devono il loro successo agli errori dei navigatori ed all’importanza dei siti realmente cercati (i partner che raccolgono gran parte dell’incasso sono valutabili in poche unità). L’analisi degli ID e la guerra al typosquatting potrebbero pertanto sgonfiare questo tipo di mercato partendo dai rilievi della ricerca. Non a caso Tyler Moore e Benjamin Edelman già collaborano su indagini di questo tipo relative a denunce contro Google relativamente a siti aventi nomenclatura parassita nei confronti di brand noti e largamente cercati online.