Google ha commentato con toni molto duri la sentenza che, in Italia, ha attribuito al gruppo una responsabilità diretta nella mancata censura preventiva del video al centro del caso Vividown. I fatti sono noti e la sentenza è forte: Google Video è stato considerato direttamente responsabile e non un mero strumento nelle mani degli utenti. La risposta di Google proviene dal blog ufficiale del gruppo (non il blog italiano, ma il blog di Google.com) con un titolo che lancia sul nostro paese le luci della ribalta: «Seria minaccia per la Rete in Italia».
Nel post si spiega anzitutto l’accaduto, partendo dal filmato girato nel 2006, fino alla condanna odierna e passando dalla condanna degli autori del video. Ma sulla sentenza giungono parole molto dure: «In sostanza questa decisione significa che i dipendenti di piattaforme di hosting come Google Video sono penalmente responsabili per i contenuti caricati dagli utenti. Faremo appello contro questa decisione che riteniamo a dir poco sorprendente dal momento che i nostri colleghi non hanno niente a che fare con il video in questione. Riteniamo, anzi, che durante l’intero processo abbiano dato prova di grande coraggio e dignità; il semplice fatto che siano stati sottoposti ad un processo è eccessivo».
Ma Google intende contestare la sentenza nel merito ed in riferimento alle conseguenze che è destinata a portare sulla Rete, quantomeno la Rete italiana: «C’è un’altra importante ragione, però, per la quale siamo profondamente turbati da questa decisione: ci troviamo di fronte ad un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet. La Legge Europea è stata definita appositamente per mettere gli hosting providers al riparo dalla responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. La motivazione, che condividiamo, è che questo meccanismo di “segnalazione e rimozione” avrebbe contribuito a far fiorire la creatività e la libertà di espressione in rete proteggendo al contempo la privacy di ognuno. Se questo principio viene meno e siti come Blogger o YouTube sono ritenuti responsabili di un attento controllo di ogni singolo contenuto caricato sulle loro piattaforme – ogni singolo testo, foto, file o video – il Web come lo conosciamo cesserà di esistere, e molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici ad esso connessi potrebbero sparire».
Il principio dettato da Google è evidente e si basa non soltanto sul senso comune, ma anche su evidenti impossibilità tecniche: è logicamente impossibile filtrare a priori i filmati riprovevoli e soltanto il lavoro di segnalazione di una community è in grado di fermare filmati come quello in esame. Se invece la giurisprudenza avanza un principio differente, allora la Rete è sì messa in difficoltà poiché crea una responsabilità a cui nessun utente e nessun servizio potrebbe mai far capo. Commenti, filmati, blog, forum e quant’altro sarebbero destinati a limitare radicalmente la possibilità di interazione, minando alla base i principi basilari del Web.
Occorre ricordare come la sentenza non abbia identificato in Google il reato di diffamazione, mentre abbia invece contestato la violazione della Legge sulla Privacy, qualcosa su cui il gruppo aveva chiarito fin dal principio come la normativa italiana non fosse applicabile ad un servizio che opera e risiede anche fisicamente su territorio USA.
David Drummond e Peter Fleischer hanno confidato lo sconcerto per la decisione del giudice ed hanno espresso preoccupazione per il pericoloso precedente venutosi a creare. Per questo motivo tanto i singoli quanto il gruppo preannunciano battaglia promettendo immediato appello alla sentenza emessa in giornata.