A Pechino forse non prendono troppo seriamente Wikileaks e il cablegate, ma quando si tratta di problemi interni sono capaci di censure impressionanti. È il caso del premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo.
Il paese che i cablogrammi sottratti alla diplomazia americana hanno dimostrato inequivocabilmente essere il responsabile degli attacchi a Google, ha dato una dimostrazione di autoritarismo sul Web: nel giorno della premiazione a quello che viene considerato un “sovversivo”, è impossibile vedersi restituiti dei risultati di ricerca se si cerca “Xiaobo” o anche semplicemente “Oslo”, “Nobel”, o “sedia vuota” (in riferimento all’immagine del posto lasciato vuoto, dato che Xiaobo è stato portato in cella di isolamento dove dovrà scontare 11 anni di detenzione).
Bloccati, oltre al sito ufficiale del premio, anche i canali che trasmettono in diretta la premiazione, come la televisione pubblica norvegese, la BBC, la CNN. E naturalmente il blog che ha riportato online anche l’ultimo documento da lui firmato, la Charta8, che ne ha decretato al contempo il plauso del mondo e le reprimenda del suo paese.
Una stretta decisa dal governo per limitare al massimo ogni possibile esposizione di questo evento. Il premio ha fatto infuriare così tanto Pechino che è stato deciso di inventarsi un premio “Confucio per la Pace”, consegnato all’ex vice presidente taiwanese Lien Chan, per il suo impegno per il riavvicinamento tra Pechino e Taiwan.
Il 10 dicembre 2010, perciò, un altro capitolo della difficile coesistenza tra la Cina e il Web è stato scritto.