Il numero IP di una connessione non è un elemento in corrispondenza biunivoca con una identità personale. Si basa su questo assunto la svolta che sta assumendo l’insieme delle diatribe legali tra il mondo del copyright e gli utenti in violazione. Ed il nuovo capitolo è scritto dal giudice Harold Baker.
Da sempre le denunce contro gli utenti si sono rette su un punto fondamentale: visto che il detentore del copyright è in grado soltanto di identificare la connessione presso cui avviene la violazione, le denunce sono state portate avanti in questi anni nei confronti di semplici “John Doe” (anonimi) nascosti dietro l’identificazione fumosa del numero IP. Le denunce consentivano in seguito di verificare la violazione e di approfondire le responsabilità personali, giungendo così ad un colpevole identificato che aveva di fronte due possibilità: pagare una cifra per un accordo extra-processuale, oppure sfidare le major in tribunale.
Il giudice Baker mette ora al primo posto il diritto degli utenti perché il caso solleva un elemento di maggior sensibilità: il tipo dei contenuti. La denuncia giunge in questo caso infatti da un gruppo di produzione di film per adulti: secondo il giudice non è possibile portare avanti una denuncia anonima senza mettere a repentaglio il buon nome delle persone, e tutto ciò senza poter dimostrare fin da subito chi sia il responsabile della violazione. Secondo quanto indicato, infatti, dietro l’IP potrebbe nascondersi chiunque: dal colpevole vero al semplice intestatario dell’abbonamento, da un amico che passa vicino al pc al vicino di casa che sfrutta di nascosto la rete Wi-Fi. Ed un errore nell’identificazione del responsabile (cosa già successa e verificata) è qualcosa che il diritto non può deliberatamente consentire.
Se questo principio dovesse affermarsi, per l’industria del copyright il lavoro si farebbe più complesso poiché cadrebbe la base su cui è stata costruita l’ostruzione ai pirati in questi anni di denunce e processi.