Nei giorni in cui la Società Italiana di Pediatria pubblica il proprio manifesto per un uso più consapevole della nuove tecnologie nei processi di apprendimento, il magazine ufficiale della SIP pubblica una interessante analisi relativa a quel che è realmente la cosiddetta “Internet Addiction“. Nei mesi passati, infatti, è stata descritta come una patologia pervasiva, un pericolo costante legato a doppio filo al tempo passato online ed alla compulsività di pratiche come la navigazione, il controllo della posta o la lettura dei social network. Calato il polverone, però, è probabilmente venuto il momento di guardare all’essenza del problema: perché è solo identificando con esattezza un problema che si può compiere il primo vero passo per la sua risoluzione.
L’analisi è firmata Mark D. Griffiths, direttore della International Gaming Research Unit presso la School of Social Sciences della Nottingham Trent University. E parte da un colpo di spugna sulla superficialità dell’approccio al problema da parte di troppi medici e troppi giornalisti: «L’eccessiva presenza sul web (per giocare o altro) non va assolutamente confusa con la cosiddetta Internet addiction. Nel primo caso abbiamo un eccessivo entusiasmo che “aggiunge” alla vita di una persona, nel secondo caso una dipendenza che “toglie”». Se gli eccessi sono valutati nella misura dell’8-12% dei giovani, ad esempio, l’addiction vera e propria è riscontrabile invece soltanto nel 2-5% dei casi.
Ogni qualvolta l’attaccamento allo strumento ed all’esperienza si rendano eccessivi, non occorre valutare a priori come una patologia questo tipo di sbilanciamento: se non si manifestano problemi terzi quali sintomi di astinenza, assuefazione emotiva, sbalzi d’umore o conflitti sociali, insomma, non v’è problema alcuno. «Giocare online per una quantità di tempo eccessiva – persino 14 ore al giorno – non significa essere dipendenti. Quello che va verificato è quanto l’eccesso di gaming online impatti su altre aree dell’esistenza. Un’attività, per quanto eccessiva, non può essere definita un’addiction se ha poche conseguenze negative o non ne ha affatto».
Risulta pertanto superficiale, stolto e fuorviante limitarsi al conteggio del numero delle ore passate online per definire una dipendenza, una patologia e la necessità conseguente di una cura. Occorre, piuttosto, valutare quali conseguenze l’esperienza online rifletta sulla vita offline. Fin quando i due ambiti non iniziano a confondersi, rendendo problematica la vita quotidiana a causa dell’invadenza di quella virtuale, non v’è nulla da preoccuparsi.
Ma questo, probabilmente, certi medici e certi giornalisti non lo andranno a sottolineare. Perché il clamore spaventa. E vende.