La chiusura di Megaupload, Megavideo ed altri siti gemelli è avvenuta con grande clamore e nel centro di una battaglia pro e contro la SOPA che rende l’atmosfera facilmente infiammabile. Tuttavia se FBI e DoJ hanno mosso passi di questo tipo dovevano giocoforza avere in mano prove oggettive di colpevolezza utili a portare al sequestro dei server, all’arresto dei responsabili ed all’interruzione delle attività di un sito che, da solo, occupava ben il 4% del traffico internet internazionale.
La situazione sembra tuttavia essere complessa poiché molte e diversificate sarebbero le prove in mano alle autorità. Tali prove saranno però l’elemento fondamentale della seconda fase, quando le persone incriminate dovranno rispondere davanti ad un giudice delle accuse formulate dall’FBI. Al momento i responsabili Megaupload fermati si dicono innocenti, ma dalle carte iniziano a trapelare i primi dettagli dell’operazione.
72 pagine: a tanto ammonta la documentazione depositata a supporto dell’iniziativa. Nel testo sono indicati capi d’accusa, materiale sequestrato, le prove a carico ed il teorema che viene contestato agli imputati.
Kim Schmitz, anzitutto, deteneva il 68% di Megaupload ed il 100% di Megavideo, Megaporn e Megapay, risultando così chiaramente indicato come il leader dell’intero team: secondo l’accusa avrebbe intascato solo nel 2010 ben 42 milioni di dollari. Mathias Ortmann, a capo del 25% della proprietà, è accreditato di guadagni da 5 milioni di dollari. Un’attività ricca insomma, ricchissima: le auto sequestrate sono la più ampia dimostrazione del fatto che il team Megaupload non portasse avanti l’iniziativa per la difesa di qualche principio, ma piuttosto per trarne lucro. Enorme lucro.
In parte l’accusa è relativa al caricamento di materiale proibito sui server del gruppo, ma sembra essere questa l’accusa “minore”. Il nocciolo della questione sembra essere più che altro nel fatto di aver eretto un ecosistema in grado di coltivare la pirateria, istigare al caricamento dei contenuti, favorire gli utenti che si fanno carico di tale responsabilità ed infine trarre giovamento economico diretto dal meccanismo creato.
Il team Megaupload, inoltre, non cancellava il materiale illecito segnalato dai detentori del copyright, ma agiva invece in modo da non alleggerire mai di contenuti di valore i propri server. Secondo le carte dell’accusa, insomma, il gruppo non agiva come “mero tramite”, ma era ben conscio della natura pirata delle attività della community e favoriva in ogni modo il perpetrarsi di questa dinamica. Lo scambio di mail tra i responsabili, già tra le mani degli inquirenti, comproverebbe la piena consapevolezza.
Megaupload traeva parte dei propri guadagni da offerte premium grazie alle quali gli utenti potevano accedere ai server con maggiori performance, godendo così al meglio del materiale desiderato. Gran parte della torta, però, è rappresentata dall’advertising. Stando al valore degli asset sequestrati, trattasi peraltro di una torta parecchio ricca, che il DOJ ha quantificato in 50 milioni di dollari in aggiunta a quanto sotto sequestro presso 60 conti bancari e vari account PayPal.
Particolarmente interessante il punto 10 del documento di accusa: Megaupload avrebbe tentato di sviare le proprie responsabilità evitando di gestire un motore di ricerca interno. L’accesso ai file era pertanto garantito da link esterni, la cui costituzione era favorita dagli “stimoli” economici ad utenti terzi affinché moltiplicassero l’eco. Tale sistema consentiva altresì al gruppo di sviare le segnalazioni sulle violazioni, poiché alla scomparsa di un link illegittimo faceva risposta la comparsa di ulteriori link alla medesima risorsa. Una strategia a prova di legge, insomma, che però sembra cadere di fronte alla prova di forza delle autorità e ad un parziale passo avanti nell’interpretazione delle norme: la creazione di un ecosistema di raccolta e distribuzione di materiale illecito, pur se non direttamente responsabile del caricamento di contenuti vietati, potrebbe essere cosa sufficiente per portare alla chiusura del sito ed all’imputazione dei responsabili?
Quel che è noto è che Kim Schmitz non sia assolutamente uno stinco di santo. I suoi precedenti per truffa e insider trading sono noti, così come è noto il suo coinvolgimento in Megaupload. Quel che non si riusciva a trovare era invece la chiave di volta che avrebbe consentito di soverchiare il sito e portare all’arresto di chi ne traeva lucro. Ed è questa una questione spinosa ancora tutta da approfondire. Perché il dibattito sulla SOPA, in fin dei conti, girava tutta attorno a questo aspetto: la legge non può usare grimaldelli e non può forzare le situazioni, ma deve invece fornire chiavi interpretative eque e logiche che permettano di applicare le medesime regole in qualsiasi contesto.
La chiusura di Megaupload chiude pertanto una parentesi, ma ne apre immediatamente un’altra. E questa volta sarà giocata in tribunale, mentre online c’è chi tenta di salvare il salvabile con un passaparola di segnalazioni che si fa via via sempre più fitto per segnalare l’immediato ritorno alle attività.