Nessuno più “va” online: lo siamo e basta. Questa è la conclusione del report di Forrester sulle abitudini di consumo americane. Una flessione delle ore che gli intervistati, in questo sondaggio annuale, hanno ammesso di trascorrere in Rete è stata interpretata come incoerente rispetti ai dati di traffico e alle altre analisi di mercato. C’è una sola spiegazione: la gente comincia a non accorgersi più della differenza tra online e offline. La differenza è sfumata, l’interpretazione delle due dimensioni si è fatta fluida.
Fino a pochi anni fa, si entrava nella Rete con un rito di passaggio. Il modem del computer si connetteva al sistema remoto, il browser, un’applicazione che doveva essere aperta, attendeva le nostre istruzioni di navigazione. I riti hanno una eccezionale capacità di rafforzare le abitudini, di calmare le ansie, di permettere la relazione con ciò che è altro da sé. Probabilmente esiste una sola cosa più forte di un rituale: la perfetta fusione con un elemento esteso di cui non ci si rende più conto.
È la metafora, sempre più concreta, del cyberpunk degli anni ’70 e ’80 (come quello della storia fragile delle nostre identità) che emerge prepotente dall’analisi di questo rapporto, pubblicato in queste ore e già commentato dalla blogosfera. Da quando esiste tale sondaggio statistico (1997) i numeri erano sempre stati al rialzo, ma improvvisamente quest’anno si è scoperto che le persone sostengono di aver speso una media di 19,6 ore alla settimana nell’uso di Internet, rispetto alle 21,9 ore nel 2011. Gina Sverdlov, tuttavia, dal blog della società che si occupa di queste statistiche sostiene che l’essenza di questo cambio inatteso è di stampo culturale:
Internet è diventata una parte normale della loro vita, i consumatori non registrano più il suo utilizzo, per esempio quando sono su Facebook. Il concetto di essere in linea è diventato mutevole grazie ad alcuni dispositivi.
Il riferimento è ovviamente agli smartphone, ai tablet, device basati su connessione perenne e applicazioni cloud. Un trasferimento delle nostre attività, e quindi anche della nostra concentrazione mentale su di esse, che prima o poi era destino avrebbe causato un abbassamento del livello di coscienza necessario a praticarle. La nostra mente cerca sempre di fare economia: se può eliminare alcuni passaggi, prima complessi, dandoli in carico a quello che meno scientificamente definiamo il «sovrappensiero», il gioco è fatto.
Dunque l’essere online non è più materia misurabile, o soltanto misurabile, bensì entra nel campo delle percezioni. I nostri smartphone ci aiutano con le mappe, il nostro account su un social network ci accompagna ovunque. Non può essere un caso che a questo singolare dato corrisponda anche il forte aumento delle persone che visitano i social tutti i giorni: il 70 per cento di quest’anno contro il 58 per cento soltanto due anni fa.
La natura stessa dell’accesso è cambiata: quel che prima aveva un inizio (il ronzio del modem ne rappresentava l’introduzione) e una fine (spesso identificabile con lo spegnimento del pc), ora si frammenta in notifiche mobile ed applicazioni always-on che rendono fluida l’esperienza. Si è sempre online, insomma, anche quando si è offline perché è il concetto stesso che è venuto meno e che ha portato alla commistione di due categorie prima antitetiche e complementari.
La rivoluzione della rete mobile, insomma, sembra essere un cambiamento non meno epocale della rete stessa, tanto da imporre un mutamento antropologico. E se una volta Erich Fromm individuava nella scelta tra l’avere e l’essere il disagio di una civiltà, un giorno un grande psicologo potrà scrivere che al nostro tempo si arrivò all’essere dimenticandosi anzitutto il verbo “andare”.