Sono lontani i tempi in cui i leader politici e i loro governi guardavano ai social network come a un fastidio necessario, magari cercando di imbavagliarli o facendo del vittimismo un po’ sospetto, come il sindaco di New York Bloomberg. Negli ultimi tempi lo sbarco dei leader del pianeta su Twitter, ad esempio, mostra una inversione di tendenza, anche tra coloro che governano col pugno duro. Lo studio pubblicato dal Digital Policy Council mostra la classifica dei leader trattandoli come influencer. E se non ci sono sorprese sui primi nomi, non ce ne sono, purtroppo, neppure per chi continua ad esserne escluso: l’Italia.
La top ten dei leader politici secondo la loro reputazione social è ovviamente collegata a due fattori: la effettiva abilità, ma anche la diffusione dello strumento e la spinta demografica della nazione. Così, troviamo nelle prime due posizioni due leader carismatici – molto diversi tra loro – come Barack Obama (25 milioni di follower) e Hugo Chávez (3,5 milioni), ma poco dietro di loro anche l’assai meno brillante Dilma Roussef, presidente di quel Brasile che è tra le nazioni più in ascesa e con una popolazione molto giovane: ciò spiega il milione e 753 mila seguaci su Twitter raccolti dal 4 ottobre 2010, giorno del primo cinguettìo.
Lo studio (PDF) prende in considerazione 164 paesi e dimostra nei fatti che il 75% dei capi del mondo ha un account. Nel 2011 erano il 42%. A questa crescita, però, non partecipa l’Italia. Inevitabile, visto lo scarso utilizzo dei social e in particolare di Twitter da parte degli ultimi due presidenti del Consiglio e del Presidente della Repubblica. Silvio Berlusconi ha appena aperto un nuovo account @Berlusconi2013, sulla cui crescita esponenziale (70 mila seguaci in 24 ore) c’è più di un sospetto; l’inquilino uscente di palazzo Chigi, Mario Monti, ha fatto molto parlare di sé per i suoi tweet natalizi in orari notturni sui quali si sono spesi molti commentatori, convincendoli in taluni casi a scrivere consigli su come cinguettare meglio.
Anche l’età conta: due settantenni contro leader che hanno una familiarità superiore con le reti sociali. Basti pensare a eccezionali influencer come la regina di Giordania, Rania, la presidente argentina Cristina Kirchner, l’amatissimo presidente dell’Ecuador Rafael Correa, i primi ministri australiano e canadese Julia Gillard e Stephen Harper. Il problema è che scendendo la classifica si trovano tutti, ma proprio tutti, anche paesi che non si distinguono per modernità, come la Mongolia (al 49° posto), l’Uganda (al 60°), il Sudan (72°), l’Iraq (al 102°). E il Belpaese non c’è.
Dato ancora più frustrante se si considera che molti leader europei hanno finalmente iniziato a twittare attivamente come in Francia, Svizzera, Spagna, Paesi Bassi e Finlandia, quasi tutti entrati subito nella top 30. Tutti questi paesi hanno un punteggio di policy alta e una fragilità bassa. Insomma, hanno cominciato forte. E persino un politico molto riluttante come David Cameron, premier britannico, ha collezionato in soli tre mesi dall’apertura di un account personale molti follower guadagnandone (pare) in simpatia, prima decisamente scarsa.
Se il candidato alla presidenza fosse stato Matteo Renzi, un vero fanatico di questi strumenti, avrebbe garantito una veloce risalita, ma anche gli attuali candidati alle prossime elezioni sembrano esserci accorti del ritardo davvero umiliante della politica italiana. Monti è appena sbarcato, Pierluigi Bersani gode di una buona reputazione online, Berlusconi sembra invece preferire ancora la televisione.
Un paese che ha appena approvato, con grande fatica e sul filo di lana, la sua agenda digitale, ha l’obbligo di entrare al più presto in questi report internazionali. Cari leader, seguite l’esempio del Pontefice. Lui lo ha già capito.