Il dibattito attorno all’Agenda digitale, approvata con così tanta fatica in dicembre, era sembrato all’attenzione di tutti. Ora che il voto ha prodotto la sorpresa di un Senato senza alcuna maggioranza possibile e un governo di scopo di pochi mesi all’orizzonte, le tante parole spese su trasparenza e open data, semplificazione, innovazione, suonano quasi ridicole. In materia di Agenda digitale, l’Italia non è mai stata tanto lontana dall’averne una.
È un problema che si era intuito osservando le timide proposte dei candidati durante la campagna elettorale. I principali esponenti dei partiti di coalizione hanno programmi poco approfonditi. Il Partito Democratico ha dedicato alcune proposte sull’Italia digitale, così come la lista civica dell’ex presidente Mario Monti, che dedica una sezione all’argomento.
Il Pdl non fa quasi riferimento, anche se ha dalla sua una persona preparata che tanto ha fatto nella precedente legislatura come Antonio Palmieri. Potrà sembrare incredibile, ma nel programma del Movimento Cinque Stelle non ci sono riferimenti precisi all’Agenda Digitale, se non sparsi obiettivi un po’ fumosi sull’innovazione e la semplificazione burocratica. Tuttavia, è anche il gruppo politico che più deve alla Rete e questo fatto dovrebbe pesare.
Stando così le cose, quell’attesa carica di perplessità di cui ha scritto Cristoforo Morandini sul giornale dell’Agenda Digitale si è rivelata profetica. Anzi, peggiorata dal blocco istituzionale:
È assolutamente chiaro come nessun partito, nemmeno quelli più legati alla Rete, sia realmente consapevole della rivoluzione digitale. Se i partiti sono latitanti, per il vero si riconoscono tra le righe i contributi di alcune persone di buona volontà che si sono distinti, spesso in modo trasversale, per alimentare il dibattito nel corso dell’anno. L’unica considerazione positiva è quindi la conferma di un “partito digitale” trasversale, attorno al quale è possibile aggregare idee e progetti che andranno elaborati facendo leva sulla capacità di mobilitazione di alcuni personaggi illuminati, che dovranno però poi inevitabilmente scontrarsi con le forche caudine dei vincoli di bilancio, con il rischio di vanificare tutto.
Quali occasioni potrebbe perdere il paese? La prima, forse la più grave, è che il decreto del 2012, che sarebbe già in vigore, sui dati pubblici è due volte arretrato: per il nuovo decreto semplificazione approvato il 15 febbraio poco prima che si sciogliessero le Camere, e per la situazione di ingovernabilità. La legge prevedeva l’attuazione di una parziale digitalizzazione delle P.A. dal 1° gennaio 2013 e il passaggio all’erogazione dei servizi esclusivamente tramite i canali telematici, compresa la posta elettronica certificata, a partire dal 1° gennaio 2014. Obiettivo del tutto irraggiungibile senza un governo stabile che produca decreti attuativi e circolari.
Esiste persino una mappatura dei servizi di Agorà digitale, che cerca di stabilire città per città il livello di attuazione degli obblighi vigenti. Intanto, cresce l’ansia su Twitter, dove da tempo si alimenta l’hashtag #SalviamoGliOpenData. L’idea, originale, è quella di una commissione informale di deputati aggregati da ogni parte politica in un gruppo di interesse sul tema dell’agenda digitale, che a sua volta si relazioni con l’esterno e ne riceva gli stimoli.