Anche Enrico Mentana se ne è andato. L’ennesimo “VIP” che rinuncia a Twitter, che alza bandiera bianca, che non trova più sul social network dei cinguettii quell’ossigeno che intravedeva dall’esterno. Anche Chicco se ne va: abbandona dopo una sequela interminabile di batti e ribatti, saluta e chiude la porta:
Un saluto finale a tutti
— enrico mentana (@ementana) 08 maggio 2013
«Un saluto finale a tutti»: con questa frase Enrico Mentana chiude un account e riapre un eterno dibattito circa il valore, la qualità e l’utilità del dialogo sui social network. La sua presa di posizione, benché non spiegata negli ultimi 140 caratteri, ha una motivazione di fondo chiara: l’incapacità di sopportare il peso del dibattito apertosi con alcuni “follower” polemici, contro i quali si è accesa una impossibile discussione circa la bontà dell’anonimato online e circa le polemiche gratuite di chi si trincera dietro un nick per polemizzare contro i personaggi “in vista”.
Poco importa, sia chiaro: Twitter non cambierà con o senza Enrico Mentana. Cambierà però l’esperienza Twitter per chi seguiva Mentana nella speranza di poter avere un para-dialogo diretto con il giornalista. Capire come si arrivi ad abbracciare un social network e come si decida poi di abbandonarlo, però, è cosa meno lineare di quanto possa sembrare. Twitter, soprattutto: il più “facile” dei social network per molti motivi, quello che più di ogni altro ha attratto i VIP abituati alle masse ed al dialogo mainstream. Mentana ha avuto il merito di provarci, e di provarci con intelligente serietà. Non ha invece avuto il merito di pensarci bene a priori, e di pensarci con intelligenza. È venuta meno la consapevolezza iniziale, e di qui l’inizio di un percorso destinato giocoforza a consumarsi.
#ilrumoredeinemici
storia di una guerra ideologica
Spesso e volentieri, infatti, più ci si avvicina a Twitter e più si rischia di rimanerne scottati. Il “VIP” (sigla utile a racchiudere semplicisticamente una intera categoria di chi arriva dal mondo mainstream), abituato a parlare tramite una telecamera a milioni di persone, si trova improvvisamente immerso in una community pronta a commentare e replicare a qualsiasi concetto espresso. I casi sono due: o si ignora questo dialogo di ritorno, ma ciò significa aver capito poco del social networking, o lo si abbraccia in prima persona, rispondendo ed interagendo con i propri seguaci. Nel primo caso ci si lava la coscienza evitando di usarla; nel secondo caso si affoga nel rumore di fondo, iniziando migliaia di discussioni che non termineranno mai. Fino ad arrivare, senza ossigeno ed allo stremo delle forze, al “saluto finale”.
Il corto circuito è la conclusione ovvia di un processo che non può funzionare. Così come la tv, i giornali e qualsiasi altro medium, anche il social network va conosciuto a fondo per potervi avviare una attività costruttiva e duratura. Twitter è il social network che permette di entrare in qualsiasi casa, sapendo che chiunque potrà entrare in casa tua prendendo parola: se si accetta una visione del mondo di questo tipo, allora si è pronti ad iniziare. Facebook è invece il social network che permette di aprire la porta soltanto ai conoscenti, sapendo però che così faranno anche gli altri nei nostri confronti: chi è pronto ad una visione più “privata” del networking allora può calzare con maggior comodità l’approccio di Mark Zuckerberg. Ma se non si conosce questa differenza, allora il rischio è di fare un approccio massimalista che presto porta al crack del rapporto con il network, con i propri “follower” e con l’identità virtuale che ci si è creati.
Inutile entrare nel merito delle discussioni che Enrico Mentana aveva intrapreso con altri su Twitter: il problema non è nel cosa, ma nel quanto. Un giornalista abituato a “pontificare” (senza accezioni negative, ben s’intenda) tramite la scrivania di un telegiornale si è trovato a dover discutere di ogni virgola con una massa di persone sconosciute, a volte senza un nome, sempre e comunque senza alcun contesto a racchiudere né il rapporto personale, né i confini della discussione in sé: non c’è nulla di sorprendente nel “saluto finale”, semmai è sorprendente tutto quel che è venuto prima.
Twitter, il social dei VIP
Piaccia o non piaccia, Twitter è un caso a sé nel mondo del social networking. Le statistiche dicono che sia popolato da pochi e animato da pochissimi, ma la sua presenza sui media tradizionali è all’ordine del giorno. Tutto ciò per un motivo molto semplice: Twitter, la casa in cui chiunque può entrare per sbirciare, ascoltare e parlare, è l’ecosistema ideale per giornali e televisioni. Parlare su Twitter significa parlare con le masse e farsi ascoltare da chiunque, a differenza di Facebook: una manna per giornalisti pronti a cercare anteprime e sfumature.
Ecco perché i VIP (dai giornalisti ai calciatori, passando per attori e comparse di ogni tipo) preferiscono la strada facile: su Twitter basta avere un nome noto per arrivare presto ad audience virtuali da migliaia di follower, riconsegnando la sensazione immediata di una platea di ascoltatori pronti ai retweet. Twitter offre tutto quel che serve, anche la misurabilità: di qui quella nota di “machismo” del “chi ne ha di più” (non solo maschile) che spesso e volentieri ha imputridito le discussioni sui social network che giornali e tv hanno intrattenuto negli anni.
Gran parte dei VIP su Twitter ha però un rapporto con il social network molto simile a quello delle telecamere: si parla e non si ascolta. 140 caratteri son facili da comporre, l’economia produttiva implica costi minimi e senza ascolto si annulla tutta quella massa di interazione che renderebbe oneroso (e ricco) il rapporto con la community. Facebook, il social network dove conquistare i fans è opera di viralità e promozione, ha costi di accesso più alti, ma per contro comporta dinamiche molto differenti consentendo ad esempio di trattare in modo differente pagine pubbliche da account privati. Su Twitter persona e personaggio sono la stessa cosa, ma la crasi tra le due entità fonde due mondi che il VIP potrebbe, dovrebbe e vorrebbe mantenere separati.
E poi arriva Gramellini
Poi, il mattino dopo l’addio di Mentana, arriva il Buongiorno di Gramellini.
Dopo l’ennesima sbornia di insulti, per lo più anonimi, persino un formidabile incassatore come Enrico Mentana ha abbandonato Twitter, nuovo giocattolino dei maschi influenti
«Sbornia di insulti, per lo più anonimi»: il dito puntato contro l’anonimato ha il pregio di inchiodare gli utenti alle loro responsabilità, ma ha il difetto di gettare nello stesso calderone qualsiasi anonimo, il tutto con sottile (dolosa?) superficialità; «nuovo giocattolino dei maschi influenti»: nuovo?
Ma non solo: «milioni di italiani atterriti dalla crisi hanno bisogno di capri espiatori su cui sfogare la loro paura tramutata in rabbia, e non li cercano fra i colpevoli di primo livello – finanzieri e alti burocrati dello Stato, volti muti e oscuri – ma fra i personaggi che vanno in tv, cioè politici e giornalisti: i Visibili». Ancora una volta i due lati della questione vengono fusi senza distinguo di sorta: la frustrazione dei troll viene semplicemente affiancata alla libertà di risposta di chi vuole applicare il proprio diritto di replica ed il proprio senso critico, il tutto su di un network la cui natura è quella di favorire il megafono (retweet) ed il citofono (rispondi). Sta al padrone di casa decidere chi ascoltare, a chi replicare o con chi discutere: questa è la regola.
«La cattiveria contro Mentana che prima gridavi al televisore del tinello, sentendoti un frustrato che parlava da solo, adesso puoi spedirgliela direttamente sul telefonino: sai che il suo amor proprio ne soffrirà e ti consideri vendicato»: il ragionamento continua sulla linea del “l’utenza online è popolata di soli troll” a colpi di «brividi di onnipotenza» che pilotano i dialoghi online. Tutti. In generale. La voce del “popolo del Web“.
«È una società schizofrenica quella che da un lato ti illude di poter dialogare con Mentana e dall’altro ti preclude qualsiasi crescita nella scala sociale»: un passaggio nel quale il peccato originale del Buongiorno di oggi viene a galla con chiarezza, poiché segna una differenza sociale precostituita tra chi comunica in tv e chi comunica in Rete. Una “elevazione” non solo professionale, ma definita come “scala sociale”. Al “VIP” viene invece concessa pietà per l’aver ceduto al narcisismo, per essere “sceso” nel dialogo collettivo dove «è un bersaglio a cui non è consentito offendersi, perché se rifiuta il botta e risposta con chi lo insulta diventa subito un censore o uno snob». Insomma: il “VIP” sarebbe la vittima sacrificale delle regole di un social network dal quale il “VIP” stesso pretende invece immunità e silenzio, poiché gli è dovuto il diritto di parlare senza ascolto. No, Gramellini: non funziona così.
L’equivoco della finta democrazia
Poi una sorta di sussulto finale: «L’equivoco che distruggerà la finta democrazia di Twitter è che ogni dialogo implica intimità e conoscenza reciproca». Si, vero, probabilmente sarà così. Ma la verità profonda è che nessuno ha mai considerato realmente democratico Twitter: è semplicemente un social network, con le sue dinamiche orizzontali, i suoi pregi ed i suoi difetti. La democrazia è invece un valore altissimo che l’uomo fatica ad applicare alla politica, figuriamoci all’intimità dei social network.
Ogni qualvolta si attribuisca un valore ad uno strumento, si confonde il fine con il mezzo. Internet non ci salverà, Internet non ci affonderà, Internet non merita leggi speciali, Internet non merita Nobel, Internet non pretende attenzioni particolari: è solo, soltanto ed esclusivamente uno strumento. Come la tv e come i giornali, che però hanno una concezione di sé molto più elevata.