È stato un dibattimento davvero prolisso quello che ieri ha visto Tim Cook e Peter Oppenheimer protagonisti al Sottocomitato Permanente sulle Investigazioni del Senato USA. Si è parlato dei capitali esteri di Apple, dell’evasione fiscale ingente e di cosa il Congresso si dovrebbe far carico per favorire il rientro di denaro estero delle multinazionali. Così come era lecito attendersi dalle previsioni della vigilia, Apple ne esce praticamente indenne, anche perché le sue politiche estere – per quanto opinabili – non sono affatto illegali. E c’è stato anche qualche senatore che ha deciso di difendere apertamente il gruppo di Cupertino.
Riportare il dettaglio dell’intero dibattimento al Senato a stelle e strisce è impossibile in questa sede, anche perché l’incontro si è protratto per più di due ore. Apple ha pubblicato un resoconto di diverse pagine sulla testimonianza, i più curiosi troveranno anche le informazioni più recondite sfogliando il documento. Per gli altri, nulla di particolarmente nuovo sotto il sole: alle accuse dei senatori John McCain e Carl Levin, i quali hanno sostenuto l’esistenza di una “ragnatela” di soggetti esteri di cui la Mela si avvarrebbe per eludere 74 miliardi in tasse statunitensi, i rappresentanti di Cupertino hanno risposto senza farsi intimorire.
Tim Cook ha ribadito come Apple paghi ogni singolo dollaro dovuto al fisco per le operazioni che avvengono all’interno dei confini degli Stati Uniti, mentre all’estero l’azienda ovviamente segue le normative vigenti nei paesi ospitanti. E la prima accusa a cadere è quella che riguarda la sede irlandese della società – responsabile del commercio di tutta Europa e parte del Medio Oriente – sull’esistenza di un’accordo istituzionale per ottenere una tassazione agevolata al 2%. In una nota rilasciata alla stampa, infatti, i portavoce del governo irlandese hanno ribadito come non sia possibile concordare la tassazione con singoli soggetti pubblici o privati, perché l’entità del prelievo fiscale è fissata per legge. Apple in Irlanda, di conseguenza, paga l’identica percentuale in tasse di tutte gli altri soggetti presenti nella nazione. Un fatto che non ha di certo scoraggiato il senatore Levin, il quale ha dichiarato:
«Apple sta sfruttando un’assurdità che non abbiamo visto utilizzare da altre compagnie. E questa assurdità non deve continuare.»
A fargli eco l’altro promotore dell’indagine contro le scelte fiscali della Mela, il senatore John McCain:
«È inaccettabile che compagnie come Apple siano in grado di sfruttare dei cavilli per evitare di pagare milioni di dollari in tasse».
Apple ha giustificato le sue operazioni estere – oltre ai normali rapporti produttivi, di distribuzione e vendita – come delle pratiche di cost sharing assolutamente legali, specificando come gran parte del denaro all’estero finisca in ricerca e sviluppo. Cook ha però sottolineato come Cupertino non rifugga il sistema fiscale statunitense e ha ricordato come Apple crei moltissimi posti di lavoro in patria, in via d’aumento con la produzione in Texas di uno dei computer della linea Mac. Ed effettivamente Cook non ha detto il falso: per quanto si sospetti l’esistenza di operazioni fantasma che permetterebbero al gruppo di investire in paradisi fiscali, tutto ciò è possibile non di certo per colpa di Apple, ma per la mancanza di leggi specifiche USA che ne sanciscano di fatto l’illecito. Per quanto opinabile, Cupertino non sta affatto agendo contro la legge. E il CEO spiega come il Senato sbagli a concentrarsi su queste questioni, quando potrebbe richiamare molti capitali in patria fornendo servizi migliori, a partire dalla gestione della proprietà intellettuale.
«Paghiamo tutte le tasse dovute, ogni singolo dollaro. Non solo rispettiamo le leggi, ma aderiamo anche allo spirito delle leggi. […] Stiamo utilizzando i nostri guadagni per investire miliardi di dollari negli Stati Uniti, per creare altri posti di lavoro americani. Stiamo investendo 100 milioni per costruire una linea Mac interamente negli Stati Uniti. Il prodotto verrà assemblato in Texas e includerà componenti fabbricati in Illinois, Florida, Kentucky e Michigan. […] Credo in realtà che in questa nazione si dovrebbe lavorare maggiormente sulla proprietà intellettuale. Il sistema giudiziario statunitense è strutturato in un modo che rende difficile fornire la protezione di cui un’azienda tecnologica ha bisogno, perché il ciclo è molto lungo.»
A correre in soccorso della mela morsicata ci pensa un’altro senatore, il repubblicano Rand Paul. Il politico ha ricordato – anche con toni particolarmente accesi – come i problemi fiscali derivanti dalle mancanze del Congresso non possano pesare sulla responsabilità delle aziende, bensì su quelle dei legislatori. Ha quindi ricordato come Apple stia contribuendo all’economia americana più di quanto lo facciano i politici, citando ad esempio la produzione di Gorilla Glass interamente a stelle e strisce. Ha quindi pesantemente redarguito l’accusa, per lo «spettacolo di trascinare qui alcuni executive di Apple, utilizzando la forza bruta di governo per intimorire una storia di grande successo».