Il caso di Carolina, la 14enne che lo scorso gennaio nel novarese si è buttata dal balcone di casa qualche tempo dopo una festa in cui iniziarono le sue vessazioni, finì subito tra accuse e veleni anche sul web, dove tutto (forse) è nato. Il MOIGE, noto per le sue posizioni fortemente critiche verso i social network, ha comunicato di aver sporto denuncia contro Facebook, accusandolo di mancata vigilanza. È lo stesso tipo di accusa che fu rivolto a Google nella famosa causa ViviDown che portò poi all’assoluzione della società proprietaria di YouTube.
Mentre gli inquirenti proseguono le loro indagini e la procura ha iscritto nel registro otto minorenni, accusati di istigazione al sucidio e detenzione di materiale pedopornografico (pare che i video incriminati siano due) l’associazione dei genitori tramite la sua presidentessa Maria Rita Munizzi apre un altro fronte:
Come genitori non possiamo più tollerare il far west che vivono i nostri figli iscritti senza il nostro consenso a Facebook, la questione dell’accesso e vigilanza è centrale. Abbiamo più volte ricordato che l’iscrizione dei minori concretamente comporta la formalizzazione di un contratto da parte di un soggetto che non ha ancora capacità giuridica per farlo, né al genitore è riconosciuta la possibilità di esercitare la legittima potestà di controllo sul proprio figlio (…) Siamo indignati e preoccupati per il silenzio e l’indifferenza di chi gestisce questi potenti mezzi di comunicazione, senza un’adeguata politica di tutela dei minori.
Il Moige non considera legittima l’iscrizione ai social dei minorenni: oggi è permesso ai maggiori di 13 anni (ma ce ne sono anche di più piccoli, che mentono sull’età), mentre l’associazione vorrebbe limitarla ai maggiorenni. Idea che riesce davvero difficile da immaginare, e che preclude le possibilità di controllo già attuabili secondo le norme del social network.
La visione del Moige è dunque radicale (e discutibile), ma non ci sono dubbi che la questione del cyberbullismo sia oggi una emergenza sociale. Difficile dire quanto davvero questi tragici casi siano da imputare a una mancata vigilanza sulle piazze virtuali (definite «strumento privilegiato per pedofili e bulli»), considerando che le pressioni a cui sono sottoposti i ragazzini fanno parte di comportamenti tipici dell’età e replicabili comunque, dal semplice sms alla lettera alla mai abbastanza considerata potenza della parola.
Tuttavia sarebbe ipocrita nascondersi dietro il dito della crossmedialità della maldicenza (che come spiega Basilio nel Barbiere di Siviglia è un venticello che diventa un colpo di cannone): i social sono senza dubbio un habitat che ha la capacità di moltiplicare e potenziare l’effetto di accerchiamento dei bulli verso una singola vittima.
Che fare? Educazione, prevenzione, ascolto. E magari anche evitare la tentazione di trovare in uno strumento esterno il responsabile di tutto.