Educazione, educazione, educazione. Lo hanno ripetuto tutti, è stato il refrain del dibattito seguito al seminario sull’odio in Rete promosso da Laura Boldrini a Montecitorio. Un seminario che nelle prime due ore si è caratterizzato negativamente per l’atteggiamento al solito confusionario e banale della politica rispetto alla Rete. Nell’ora successiva, invece, gli interventi dei partecipanti hanno fornito tutti gli spunti che erano mancati in precedenza, salvandolo in corner.
Dando per scontato il paradosso di questa eccezionale sensibilità politica ai discorsi di odio, quando una parte così consistente della classe politica non riuscirebbe mai a superare un esame del genere, il dibattito moderato da Luca Sofri ha certamente rimesso la discussione sui binari giusti, dopo l’assai criticabile intermezzo alla Oprah Winfrey coi genitori di figli vittime di cyberbullismo chiamati a raccontare le loro tragiche vicende personali.
Gli interventi, condotti dal fondatore di Wittgenstein e di IlPost sulla linea retta del chiedersi cos’è l’odio e come si propaga in Rete piuttosto che farsi domande inutili sulle eventuali responsabilità dei social o del web (che portano soltanto a posizioni contradditorie e a ipotizzare leggi ambigue) hanno visto parlare per pochi minuti ciascuno giornalisti, blogger, specialisti che non hanno fatto mancare le loro puntualizzazioni.
Guido Scorza: è ancora un linguaggio televisivo
Fedele alla sua posizione da sempre attenta alle possibili censure sulla Rete, l’avvocato Guido Scorza ha subito specificato che a suo parere l’hate speech di cui si parla tanto è in realtà prodotto dalla cultura televisiva e che il web c’entra poco. Pur essendo colpito dalle vicende dei genitori, ha raccomandato di ricordare sempre che l’idea di spingere i social sul terreno di una forte politica preventiva «può portare all’autocensura» e non ha nascosto la sua perplessità.
#nohatespeech Confesso che avrei evitato le testimonianze dei genitori delle due vittime. Sono naturalmente storie toccanti ma…
— Guido Scorza (@guidoscorza) June 10, 2013
Lipperini – Betti – Zanardo: la violenza contro le donne
Molto interessanti le parole spese da Loredana Lipperini, a cui hanno fatto seguito la giornalista del Manifesto Luisa Betti e Loredana Zanardo, autrice del documentario (poi diventato anche un libro) Il corpo delle donne. Ben lungi dal cedere alle più retrive semplificazioni sulla Rete come veicolo di violenza contro le donne, si è ricordato l’esempio di Radio Radicale e i microfoni aperti per stabilire come questo paese sia in realtà intriso di cultura maschilista, razzista e omofoba. Ma così come all’epoca le radio fecero una riflessione su quanto accadde, lo stesso discorso vale per la Rete, e soprattutto per gli influencer:
Perché un mezzo che di per sé non è causa di razzismo o altro, lo aiuta così tanto? La sensazione è che la discussione di chi di Rete sa non si sia ancora sviluppata: l’unica reazione è spesso “non toccateci la Rete”. Grazie al lavoro che si fa nelle scuole i ragazzi impareranno, sono più pessimista con gli adulti. Scrittori, intellettuali, insegnanti: da loro mi è capitato di sentire le peggiori affermazioni sessiste. Io credo che soltanto quando gli influencer prenderanno atto del sessismo che c’è in Rete otterremo qualche risultato.
Arturo di Corinto: nei social logica da palcoscenico, ma non è il far west
Arturo di Corinto, psicologo e grande conoscitore della Rete (con un passato di hacker), non si è fatto intimidire dal parterre e ha ribadito di aver sempre considerato più che legittima la preoccupazione dopo l’intervista della Boldrini per Repubblica, citando i numerosi casi di pessimi disegni di legge ed affermazioni contro la Rete da parte di molti politici di tutti gli schieramenti. Per Di Corinto è centrale l’educazione all’uso di Internet, soprattutto dei social («dove vige la logica del palcoscenico»), forti del suo potenziale emancipativo. Utile, il suo intervento, anche per smontare alcuni luoghi comuni ancora troppo diffusi, come quello sull’anonimato o sulla impunità:
Incitare all’odio sul web, compiere reati sul web non è più facile, è più probabile essere riconosciuti. Tutte le nostre azioni, per il semplice fatto che sono agite in rete lasciano molte più tracce. Smentiamo una volta per tutte questa bugia del far west: le leggi ci sono, sono applicabili, e l’anonimato non esiste: datemi un qualunque nickname e in sei ore vi trovo chi c’è dietro.
#nohatespeech autoregolamentazione e autocontrollo x combattere odio online. Lo dice il vice segretario del consiglio d'europa
— Arturo Di Corinto (@arturodicorinto) June 10, 2013
Come fare un lifting a uno specchio
Il concetto, molto importante, è stato ribadito anche da altri due interventi, quelli di Alessandro Bonino e di Massimo Melica, i quali, ognuno dal suo punto di vista, hanno spiegato come più ci si addentra nella questione dell’hate speech più si comprende come il Web soffre, forse, del fatto che non c’è stato il tempo di educare gli utenti ad utilizzarlo «senza smettere di essere sé stessi» e secondo regole di vita civile, ma resta altrettanto naturale dal punto di vista sociologico trovare qualcuno che ti odia quando hai mezzo milione di persone che ti seguono. Preoccuparsi della Rete è, per dirla con Melica, «come fare il lifting allo specchio perché non ti piace la faccia che vedi».
Il sunto è, quindi: non odiate su internet, perché vi beccano. #nohatespeech
— alessandro bonino (@eio) June 10, 2013
#nohatespeech come ripeto sempre: "Internet é per tutti ma non tutti sono per Internet" il problema non ë lo strumento ma gli umani
— Massimo Melica (@MassimoMelica) June 10, 2013
IL VIDEO DELL’INCONTRO
In conclusione
Quale può essere, dunque, la conclusione di questo seminario e relativo dibattito? Che la Rete è un contenitore sostanzialmente neutro – al di là della sua privatizzazione, che però non la distingue da tutti gli altri mass media – che ha il pregio, non il difetto, di manifestare il disagio, le componenti sociali meno edificanti, le violenze, i pregiudizi, più di tutti gli altri mezzi di comunicazione del passato. Una risorsa, se la si vuole vedere così, per tutti: politici, educatori, genitori. Con la differenza che il violento in Rete rischia maggiormente di essere beccato rispetto ad altri ambienti.
Insomma, la conclusione smentisce quanto preteso, anche se ammorbidito da rassicurazioni di circostanza, dalla presidente Boldrini e dai politici italiani, che si ostinano a pensare alla Rete come a un entità e non a un luogo con qualche effetto moltiplicatore (peraltro spesso sopravvalutato come hanno dimostrato negli Usa con una mappa Twitter sullo hate speech). Con questo atteggiamento si arriva spesso, partendo da buone intenzioni, a intavolare imbarazzanti “processi alle parole”.
Il commento migliore è però quello di Vittorio Zambardino, che ha lasciato la sala due ore prima e ha ricordato in un post profondamente deluso dall’incontro un episodio di bullismo di cui è stato testimone, da giovane studente nella prima metà degli anni ’60, quando un compagno veniva regolarmente pestato e preso in giro:
C’era il disprezzo, c’erano gli sputi, c’erano l’avvilimento e il ricatto. Andava in linea ogni giorno all’uscita. Ora vorrebbero farmi credere che c’entra la Rete, mentre io ricordo bene che c’entra quell’abisso che è il cuore degli umani.