La Federal Trade Commission ha aperto una inchiesta su Facebook in merito alle nuove regole sul trattamento dati, appena deliberate. Lo dice il New York Times, che ha un po’ forzato le parole di circostanza di Peter Kaplan, portavoce della commissione, che due settimane fa aveva ricevuto una lettera firmata dal Center for Digital Democracy e da altre associazioni che chiedevano di bloccare questo passaggio. Le loro argomentazioni pare abbiano fatto breccia: anche secondo la FTC il social network non può alterare le regole senza avvisarli e soprattutto senza il consenso esplicito degli utenti.
Gli aggiornamenti su privacy e trattamento dati di Facebook sono stati introdotti secondo il discutibile metodo del consenso informato tramite sondaggio d’opinione. Temi quali il trattamento dei dati da parte di terzi e lo sfruttamento commerciale delle attività sociali per annunci sponsorizzati sono stati demandati a un lungo e complesso dedalo di documenti. La FTC, però, è dell’avviso che questa modalità vìoli l’accordo siglato nel 2011, secondo il quale gli utenti devono dare il loro consenso esplicito a questo tipo di sfruttamento dei dati.
Il problema del consenso
Il portavoce della FTC è rimasto abbastanza abbottonato sulla questione, ammettendo soltanto che «Facebook non ha mai cercato una discussione anticipata con noi su queste modifiche proposte, stiamo monitorando la conformità con il regolamento», ma è evidente come ancora una volta il social abbia concentrato su di sé una battaglia per la privacy. Il problema del consenso è dunque doppio: quello anticipato della Commissione Federale; quello preventivo dell’utente disponibile a vedere la propria immagine accostata ad una inserzione. Entrambi disattesi.
Il punto di vista di Facebook
Facebook aveva già spiegato in occasione della lettera alla FTC il giorno stesso della chiusura della consultazione online, di considerare le modifiche «solo un chiarimento linguistico» e che per questo non era necessario ricorrere alla FTC. Il nuovo testo afferma che gli utenti danno automaticamente a Facebook il diritto di utilizzare le loro informazioni a meno che non lo neghino espressamente (possibilità più che altro teorica). In precedenza, invece, la policy – che la FTC considera intatta – si basava sulla dichiarazione del diritto dell’utente di controllare come il proprio nome, l’immagine e le informazioni personali siano utilizzati a fini commerciali. Davvero solo una questione nominale?
Come funziona la storia sponsorizzata
In attesa di capire cosa dirà la FTC e se eventualmente chiederà a Facebook un passo indietro o un passo avanti, si può anche ammettere che l’azienda abbia ragione per comprendere cosa davvero pensa di fare con le storie sponsorizzate. Il funzionamento di questo genere di annuncio è legato ai commenti positivi di un utente, e non ai semplici “like”. Quando si esprime con un post un parere positivo su un brand (e ormai tutti o quasi sono taggabili sul social), Facebook vende al brand stesso la possibilità di creare un contenuto pubblicitario che replica quel post e lo spedisce a tutti gli amici dell’utente. La logica è semplice: se hai esplicitato un commento positivo su un prodotto che presumibilmente possono vedere tutti i tuoi amici, perché impedire al proprietario del marchio di fare lo stesso aumentando le probabilità che lo vedano?
Ovviamente, però, ci sono molte implicazioni personali, individuali, in questa tecnica di marketing, che la rendono particolarmente odiosa per gli utenti, e l’accordo del 2011 con la FTC venne proprio a seguito di alcuni problemi, scaturiti anche in un assegno di 20 milioni di dollari di Mark Zuckerberg per chiudere una class action.
Come finirà? Considerando che questa nuova policy è stata introdotta il 29 agosto, per soli sette giorni, e che ha prodotto una tempesta di proteste, una lettera alla FTC e (forse) una inchiesta, nulla di cui stupirsi se la data del 5 settembre è stata superata da qualche giorno ma la società ritarda la sua adozione.