La commissione Finanze ha approvato all’unanimità un piccolo emendamento che potrebbe aprire una fase completamente nuova nei rapporti tra il fisco italiano e i colossi tecnologici. Il deputato Ernesto Carbone (PD) si è visto approvare il suo emendamento al disegno di legge sulla delega fiscale che questa settimana arriva alla Camera. Un piccolo enunciato, un primo passo verso un obiettivo clamoroso: far pagare più tasse a Google, a Facebook, Amazon e altre tech companies.
L’iniziativa di Ernesto Carbone si era fatta subito notare appena resa pubblica la scorsa settimana. Forse un po’ sbrigativamente definita “anti-Google”, la proposta consisteva in due emendamenti separati: uno sulla ipotesi di aprire una partita iva pubblicitaria e l’altro che parlava di una più generica stima degli introiti di queste società al fine di una tassazione progressiva. Essendo il testo destinato a una legge delega che stabilisce solo principi entro i quali poi opererà palazzo Chigi, si è arrivati ad un emendamento unico che non entra nello specifico, ma conserva l’idea principale di stabilire dello modalità per affrontare il noto problema dell’elusione fiscale dovuto all’escamotage del cosiddetto “panino irlandese”. L’emendamento, votato all’unanimità, così recita:
Prevedere l’introduzione, in linea con le raccomandazioni degli organismi internazionali e con le eventuali decisioni in sede europea, tenendo conto anche delle esperienze internazionali, di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale.
Intervista al deputato che dichiarò guerra al GAFA
Carbone, di mestiere avvocato, potrebbe sembrare il Davide di un piccola penisola contro il Golia del GAFA, i giganti della pubblicità online, ma in realtà basta leggere con attenzione l’emendamento per capire che il testo si affida alle recenti discussioni in sede internazionale – la commissione Europea, persino il G20 – e punta a copiare le esperienze migliori di altri paesi che già hanno cominciato a legiferare o a trovare accordi per drenare parte di questi guadagni immensi verso la cosa pubblica o verso l’editoria. Francia in primis.
La sua proposta sta facendo molto discutere, basta leggere i commenti su alcuni siti, ma non ha affatto spaccato la commissione: come se lo spiega?
«Credo sia un segnale importante. Ormai è indubbio che esista il problema rappresentato dalla sproporzione tra il fatturato di queste società e l’imposizione fiscale. È anche una questione di giustizia. A proposito di alcune critiche, che ho letto, da parte di giovani appassionati della Rete che ritengono sia una proposta da larghe intese per danneggiare la Rete, evidenzio che il testo non solo è stato votato da tutti, compreso il Movimento Cinque Stelle, ma alcuni dei loro deputati l’hanno anche firmato».
Facendo l’avvocato del diavolo, immagino il punto di vista di una qualunque persona fisica: vendo servizi in tutti i paesi europei, pago le tasse nel paese in cui ho sede. Se si facesse diversamente si violerebbe qualche manciata di leggi comunitarie…
«Assolutamente. E infatti l’idea parte dalla pubblicità online, non dal servizio, cioè si riferisce al fatturato creato vendendo spazi pubblicitari che sostengono il servizio e sono indirizzati ai consumatori del paese dove questi spazi sono venduti. In altri termini: se Google vende pubblicità a una casa automobilistica per un’offerta speciale dedicata soltanto agli italiani, per quale ragione dovrebbe bastare il fatto che la fattura viene spedita da New York?».
C’è una differenza profonda tra aziende che vendono beni immateriali, come Facebook e Google, e aziende come Amazon, che qui ha il magazzino, che qui opera materialmente. La soluzione da voi immaginata può davvero contemplare tutti?
«Giusta osservazione. Non a caso la Gabanelli fece un’inchiesta su Amazon a proposito dell’elusione fiscale. Ma Amazon in un certo senso è un una storia a sé, che potrebbe essere risolta proprio dalle decisioni prese in sede europea. Io mi sono ispirato, invece, a quanto fanno in California e in Massachusetts».
Nella Silicon Valley i colossi della Rete pagano più tasse?
«Proprio così. Non tutti lo sanno, ma a casa loro queste aziende hanno accettato una specie di redditometro. Il governo Usa considera la dichiarazione dei redditi e guarda a dipendenti, immobili, e altri criteri, poi in caso i conti non tornino chiedono un ravvedimento. Pagano tasse con percentuali a doppia cifra. Invece qui parliamo di tasse a malapena a sei zeri a fronte di fatturati di centinaia di milioni di euro. Briciole».
Lei sta dicendo che il governo italiano dovrebbe fare uno studio di settore e stabilire un redditometro per le multinazionali tech?
«Può sembrare provocatorio, ma pensiamo a come sono fatte queste aziende nei paesi come il nostro. Hanno sedi fisiche piccole, pochi dipendenti, vendono servizi e non oggetti. L’unica leva che si può utilizzare è mettere in discussione la tesi secondo la quale queste società vendono pubblicità- mondo e invece, una volta stabilito che le campagne hanno valenza territoriale, imporre una fiscalità. Tassare le società a una percentuale stabilita secondo i criteri particolarissimi del loro business. Lo fanno negli Stati Uniti, dove sono nate, perché non dovremmo farlo noi?».
Di che cifre parliamo?
«Mi prendo la responsabilità delle cifre che do: le mie fonti dicono che il mancato gettito in Italia è di 900 milioni di euro».
Vale un punto di IVA.
«Stiamo diventando pazzi per evitare il punto di Iva, eliminare l’IMU, restare nel deficit al 3%, e poi permettiamo questo? Che il punto di Iva lo paghino loro.»
Siamo in Italia, non finirà come spesso capita a tarallucci e vino?
«L’emendamento è stato votato, martedì o mercoledì andrà in aula. Rappresenta un indirizzo al governo che non può ignorare. Non è un mero enunciato di principio: l’Italia legifererà sulla fiscalità per queste aziende. Sono sicuro al 99,9%. Lascio un piccolo margine solo per superstizione».