C’era una volta la via italiana alla tecnologia domestica. Si battevano tastiere Olivetti e si accendevano televisori Mivar. Anche nel caso della mitica azienda di Abbiategrasso bisogna parlare al passato: alla fine di novembre la produzione smetterà definitivamente e le poche decine di operai rimasti si dedicheranno alla manutenzione, mentre l’azienda pensa a convertirsi nel settore mobili.
Il caso Mivar ha tenuto banco nelle cronache sindacali già da un lustro, in più occasioni pareva sull’orlo della chiusura. Il suo patron, il burbero Carlo Vichi, imprenditore d’altri tempi famoso per la sua scarsa simpatia per le organizzazioni sindacali e l’amore per la sua fabbrica e Benito Mussolini, aveva già respinto altre crisi della sua tecnologia, prima optando per la costruzione di assemblati, poi guardando ad altri settori e aprendo a un contratto di solidarietà. Che scadrà a novembre. In realtà è servito a tappare le falle, era solo questione di tempo. Il televisore a tubo catodico, tra i migliori del mondo negli anni Settanta e Ottanta, perfettamente in grado di competere coi giapponesi col suo milione di apparecchi l’anno, è alle spalle e l’era del touch, dei device cinesi e della mobilità è un futuro arduo da affrontare.
I televisori LED non sono bastati
Nonostante lo sforzo creativo di mettere in catalogo televisori LED dalle caratteristiche superiori alla concorrenza, la Mivar non è riuscita a restare a galla, paradossalmente ripagata dalla stessa moneta utilizzata nei confronti degli asiatici nei decenni passati: da quei paesi, dalla Turchia, arrivano apparecchi dai prezzi troppo competitivi e solo la fascia alta – ormai non più raggiungibile – permette guadagni importanti.
Dei 700 operai della Mivar che fu, ora ne sono rimasti 52, che si dedicheranno alle attività programmate, smaltimento delle scorte di magazzino, manutenzione. In più, i mobili: nuovo scenario nella mente del novantenne Vichi, che ai giornalisti si dice per nulla deciso a mollare. Neppure al Comune di Milano, interessato in ottica Expo alla sua straordinaria fabbrica costruita nel 2001 pompando in azienda il patrimonio personale dell’imprenditore, cento milioni di euro dal 2000 ad oggi. E rimasta inattiva.
L’informatica, l’hardware: l’Italia non è stata al passo
Mivar è forse l’ultima vittima, certamente una delle più illustri, del famoso treno perso dall’Italia negli anni Ottanta, quando la rivoluzione informatica cambiò completamente l’industria della conoscenza e della comunicazione e ha seppellito l’elettronica di consumo tricolore. L’Italia non fu in grado, nonostante eccellenti premesse e persino avanguardie, a competere con chi dall’altra parte del mondo cominciava a produrre i personal computer e le schede, per una complessa serie di colpe legate alla miopia della politica industriale degli ultimi trent’anni. Perso l’hardware, è stato un piano inclinato per tutto il resto, tant’è che si può dire che la prima volta in cui si è tentato di investire nell’innovazione in Italia è stato con le norme sulle startup. In mezzo, trenta anni di vuoto.
Milano Vichi Arredamenti Razionali
Questo il nuovo nome che l’imprenditore sta valutando per i tavoli ergonomici ai quali sta lavorando. Sarà vero? Funzioneranno? Quando Vichi non ci sarà più, quella grande area nel parco del Ticino servirà a qualcosa o sarà un monumento archeo-industriale a un uomo per certi versi eccezionale ma anche irripetibile e originale, un Howard Hughes italiano? Difficile rispondere: per questi mobili Vichi ha studiato fisica e astronomia, saranno certamente interessanti. Come tutto quello che ha realizzato Vichi in questi decenni. Lavoro che ha meritato anche un fan club su Facebook.