«Hello». Con questa semplice scritta in corsivo uno dei computer più rivoluzionari della storia dell’informatica – il Macintosh – si presentò al mondo. Era il 24 gennaio del 1984 e, sebbene fosse stato introdotto due giorni prima dall’iconico spot orwelliano al Super Bowl, quel piccolo schermo lasciò tutti a bocca aperta: un computer con interfaccia grafica a un prezzo abbordabile per il consumatore medio.
La genesi del primo Macintosh, uno dei progetti su cui Steve Jobs spese gran parte dell’energie e che ne causò la cacciata da Apple un anno più tardi, è stata estremamente complessa. L’idea nacque già a fine degli anni ’70, quando l’allora nascente Apple rimase folgorata dalla genialità dei developer Xerox: un computer comandato da icone e menu contestuali anziché da lunghe strisce di codice. Così, mentre sul mercato la Mela si apprestava a vendere i suoi Apple I e Apple II, in sordina è iniziato lo sviluppo della prima macchina consumer dotata di GUI: nel 1983 venne presentato l’Apple Lisa – il nome è dedicato alla prima figlia di Jobs – ma non ebbe grande seguito dato anche il prezzo elevatissimo di quasi 10.000 dollari.
Mentre Jobs cercava disperatamente di trovare acquirenti per Lisa, Jef Raskin stava lavorando su un progetto di computer a basso prezzo, all’interno della divisione “Annie”. L’idea era quella di creare una macchina con schermo integrato da 5 pollici e periferiche incluse, per conquistare il ceto medio ancora lontano dai fasti dell’informatica. Finché non sopraggiunse di nuovo Jobs, già allontanato da Lisa per il suo atteggiamento dispotico e non gradito dalla dirigenza californiana, a modificarne radicalmente l’essenza.
Nel progetto originale il Macintosh avrebbe dovuto vedere l’installazione di un processore Motorola 6809, un chip non adatto a sostenere un’interfaccia grafica. L’obiettivo era quello di non superare i 1.000 dollari, ma Jobs insistette per utilizzare invece un Motorola 68000, tanto da riuscire ad allontanare Raskin dalla divisione grazie anche all’intervento provvidenziale del CEO Michael Scott. Ottenuto il processore desiderato, il compianto iCEO riuscì anche a raddoppiare la RAM rispetto agli standard di mercato – 128k anziché 64 – e a sviluppare il primo sistema operativo completo di GUI, il capostipite di quel che poi diventerà il Classic.
Venduto a 2.495 dollari, il primo Macintosh si caratterizzava per un design compatto all-in-one, con tanto di lettore floppy disk da 3,5 pollici, contro i 5 ampiamente diffusi fra i concorrenti. Lo schermo integrato monocromo, dalle dimensioni di 9 pollici, ha visto inoltre l’introduzione della prima “alta” risoluzione – 512×342 pixel – imponendo così lo standard dei 72 ppi ancora oggi largamente diffuso. Sul retro tutti i connettori proprietari per tastiera, mouse e periferiche terze, appositamente differenziati nelle forme affinché il consumatore non si sbagliasse nel collegamento.
Sebbene non fosse dotato di disco fisso – un fatto tutt’altro che necessario per l’epoca – il primo Macintosh rese l’informatica alla portata di tutti. L’utente non doveva dimostrare alcuna competenza pregressa per utilizzare il suo computer, non veniva richiesta la conoscenza di nessun comando testuale. Bastava muovere il mouse sul menu e accedere alla funzione voluta: una vera e propria rivoluzione. Inoltre, considerata anche la mania di Steve Jobs per la tipografia, il Macintosh portava la creatività all’interno delle case: agli utenti era consentito scrivere testi dai più svariati caratteri, creare grafici, divertirsi con disegni e fotografie. Non a caso, di default il sistema operativo vedeva l’installazione di MacWrite e MacPaint, gli antesignani delle suite d’ufficio moderne.
La vita di questa prima versione fu abbastanza breve, perché un anno dopo venne rimpiazzato da un modello con ben 512k di memoria. Se mai dovesse capitare di avere fra le mani uno di questi esemplari – senza i quali i computer come oggi li si conosce non esisterebbero – non si abbia però paura a utilizzare il cacciavite: la scocca, infatti, vede serigrafate all’interno le firme di tutti i membri che parteciparono al team di sviluppo, in omaggio a coloro i quali avevano collaborato alla creazione di quella che Jobs intendeva in tutto e per tutto come un’opera d’arte.