Ci risiamo. Un altro politico toccato sul vivo si pone a legislatore urgente sui temi della Rete e dell’hate speech. Stavolta la firma è dell’on. Alessandra Moretti, del partito democratico, che ha lanciato sul blog La27esimaOra un invito a reagire agli insulti sessisti fuori e dentro la Rete, finendo però col deviare da questa condivisibile posizione verso una serie di sconsolanti affermazioni, ignare dell’argomento che si vorrebbe trattare.
L’argomento è legato a quei colpi bassi della guerriglia politica esplosi su Twitter qualche giorno fa, quando l’account della Moretti è stato hackerato, con esiti goliardici. Ultimo di una serie di episodi offline e online che hanno davvero abbassato il livello del confronto politico e dell’interazione tra cittadini e istituzioni, già basso di suo. L’intervento della Moretti sul blog del Corriere parte da un presupposto corretto:
Esiste la necessità, l’urgenza di reagire. Tanto per cominciare smettendo di fare le vittime! Mostriamo le facce e i volti di chi pensa di intimidirci con offese sessiste. Denunciamo pubblicamente quelle persone che passano il tempo a inquinare uno spazio che dovrebbe essere di tutti, ma che purtroppo al momento è solo di chi ha la voce più grossa (e di timbro maschile). Denunciamo alla polizia postale e replichiamo agli insulti. Non restiamo immobili, non arretriamo perché l’offesa brucia tanto quanto uno schiaffo e a questo tipo di linguaggio dobbiamo rispondere per le rime, proprio oggi quando possiamo cambiare la cultura del Paese costruendo una vera leadership femminile non ricalcata su quella del maschio.
A questo però viene aggiunta, senza soluzione di continuità, quasi fosse la sua naturale conseguenza (e qui sta l’inghippo), l’ennesima proposta di legge ad hoc, che la Moretti annuncia infilando almeno due cantonate:
Si è fin troppo tutelati contro le diffamazioni sui giornali online e per nulla in quella terra di nessuno che sono i social. Occorre che i provider inizino un processo di responsabilizzazione dei contenuti. (…) Si può fare molto anche a livello di comunicazione: pubblicare i volti di chi pensa di insultare impunemente sul web è un modo per rafforzare e condividere la reazione.
Qualcuno spieghi a certi politici come stanno le cose
È davvero imbarazzante dover aggiungere un altro capitolo al romanzo infinito dei tentativi nostrani di mettere un bavaglio ai discorsi della Rete, raccontato negli anni qui su Webnews.
Esiste, inutile negarlo, un grande partito trasversale che si ostina a dedurre da analisi superficiali proposte potenzialmente disastrose. I difetti sono i soliti, si possono spiegare elencando i fatti che anche la Moretti evidentemente non sa:
- L’anonimato non esiste. Molti politici non riescono proprio a capire che l’anonimato non esiste in Rete e nulla c’entra con l’hate speech. I comportamenti aggressivi delle persone sui social derivano da una percezione errata della propria presenza in Rete. Se c’è un ambiente iper-controllato è proprio un social network: ogni utente deve iscriversi con una propria mail, dare tutti i propri dati identificativi (a disposizione della polizia postale) e dispone di strumenti piuttosto semplici per bloccare commenti odiosi e segnalarli.
- Esistono già tutte le leggi per punire i colpevoli. Il povero Stefano Rodotà non sa più come dirlo: bastebbe applicare le norme esistenti su diffamazione, aggressione e furto di identità per avere un quadro normativo di piena copertura dei più comuni reati compiuti sul web. A esclusione di altri temi, più pedagogici – quindi esterni al perimetro di una legge che incida sul codice penale – affermare che esiste un far west in Rete solo perché qualcuno può offendere qualcun altro è del tutto privo di fondamento. Ci sono sindaci e consiglieri regionali espulsi dal loro partito e condannati per una battuta razzista sulla Kyenge, con procedimenti durati poche settimane se non pochi giorni.
- Coinvolgere i provider è illecito. Anche in questo caso, è argomento affrontato migliaia di volte, ma non c’è niente da fare. Molti politici si ostinano a credere che a un ISP possa trasferirsi la colpa di un singolo utente, di un singolo contenuto quando non si trovi il vero colpevole o magari solo per intervenire più in fretta. Se a Bruxelles sapessero con quanta leggerezza si parla in Italia di procedure di Deep Packet Inspection ci metterebbero i sigilli. Il commento migliore – anche perché davvero tra i più informati – è quello di Stefano Quintarelli sul IlPost:
Credo che la collega On. Moretti sia stata molto mal consigliata. Sono certo che lei, come me, non vorrebbe vivere in un paese dove il vaglio del sottile confine tra libertà di espressione e delitto sia lasciata alla discrezionalità di soggetti privati che operino per le vie brevi. Se non altro, perchè sarebbe contrario alle norme europee.
@_arianna @fabiochiusi Mi piacerebbe molto avere un vostro contributo anche critico al fine di migliorare il testo. Grazie
— Alessandra Moretti (@ale_moretti) February 9, 2014
Una questione culturale
Leggendo le conversazioni attorno ai tweet della Moretti, di cui sono protagonisti nomi noti del dibattito sulla Rete come Fabio Chiusi, Paolo Coppola, lo stesso Quintarelli, Arianna Ciccone e molti altri, si intuisce il deficit culturale di cui purtroppo soffre questo paese. Il fenomeno della Rete è diventato così sociale da essere prepotentemente politico, ma la politica è spesso così prepotentemente inadeguata da compiere errori grossolani, persino infantili. E coloro che in politica (pochi) e nella Rete (di più) hanno maggiore conoscenza della materia si trovano costretti a ripetere sempre le stesse cose o magari ad essere cooptati per il “miglioramento” di una legge, quando quella legge dovrebbero, al limite, scriverla direttamente loro. Ammesso che sia una buona idea scriverla.
Nel caso della Moretti è difficile non notare come questa proposta di legge (verrà depositata nei prossimi giorni) nasca dopo gli scontri avvenuti in commissione coi deputati cinquestelle, e dopo i gravi insulti ricevuti da alcuni esponenti – soprattutto femminili – via social. Un legislatore però non dovrebbe mai partire da un caso personale, da un fenomeno circoscritto, per fare una legge. In caso contrario si vìola la terzietà, la necessaria serenità per poter analizzare scientificamente un argomento e disegnare una legge che voglia risolvere eventuali mancanze.
Inoltre, se anche teoricamente può capitare che una “vittima” giudichi obiettivamente un fenomeno e possa legiferare, c’è almeno una frase della deputata che smentisce sia questo il caso: quella definizione di «web più maschilista di sempre» che sfiora il ridicolo involontario, essendo il web un luogo e non un’entità, troppo giovane il social-web per espressioni di così lungo corso e soprattutto essendo un’affermazione priva del conforto di qualunque dato.
No, così non si legifera, non ci si dovrebbe neppure provare. Se nel 2014 sono possibili disegni di legge di questa fattura e firmati da under 35, la questione culturale è davvero più grave del previsto.