IBM lo ha creato, Eni se ne sta interessando: si chiama Watson, viene presentato come la “nuova frontiera” del cognitive computing ed è oggi un grande progetto in essere ancora in cerca di una sua esatta collocazione sul mercato. La grande vocazione a cui si ispira e le grandi ambizioni a cui aspira sono i motivi che hanno spinto tanto IBM quanto Eni ad aprire le porte al progetto, cercando quanta più contaminazione e coinvolgimento da ogni singolo settore interessato.
Nella giornata di ieri un apposito workshop è stato organizzato presso gli uffici Eni di San Donato Milanese con la presenza di responsabili IBM, responsabili del progetto Watson e una serie di CIO italiani impegnati in grandi aziende e potenzialmente interessati a capire come Watson possa cambiare il modo di pensare la gestione delle informazioni in azienda. L’appuntamento aveva questa finalità primaria: far massa critica attorno a Watson affinché le idee di tutti e la collaborazione di ogni segmento possa arricchire il potenziale dell’idea originaria e possa coadiuvarne lo sviluppo. Impresa, privati e università: Watson è una intelligenza digitale a disposizione di chiunque riesca a immaginare il modo per farne propria la potenza di calcolo.
Eni e Watson
L’introduzione è stata di Gianluigi Castelli, Chief Information Officer Eni già a capo del progetto sfociato nella realizzazione del Green Data Center. Castelli ha voluto anzitutto chiarire la serietà dell’approccio Eni alla questione, ricordando a più riprese come occorra ripartire dalle basi affinché l’hype non superi la concretezza del potenziale vero del progetto: se si parla di “Big Data”, quindi, occorre anzitutto capirsi su cosa siano i “Big Data” e come li si possa realmente utilizzare per creare valore. Raccogliere dati non è infatti valore, ma costo: saperli analizzare, organizzare e quindi sfruttare è invece qualcosa che può dare risultati inattesi e tali da moltiplicare la redditività degli investimenti.
Le convergenze tra Big Data e Cognitive Computing possono davvero rappresentare le fondamenta per una radicale trasformazione del modo di funzionare e di erogare servizi IT in una grande azienda.
L’idea di “digital enterprise” non può prescindere da questi ragionamenti: Watson può essere potenzialmente applicato all’impresa stessa prima ancora che al suo prodotto, ma occorre partire da una organizzazione pensata per essere digitale e integrata. Il ruolo di Watson, quindi, andrà pensato in quest’ottica: il progetto di IBM va letto come una nuova «santa alleanza» tra l’uomo e la macchina, il che proietta un nuovo modo di pensare il ruolo dell’uomo nell’ecosistema produttivo. La persona diventa un elemento prezioso di input e un tassello fondamentale di validazione dell’output, ma nel mezzo viene a inserirsi una nuova forma di intelligenza che, basata su potenze di calcolo non disponibili anche solo nel recente passato, apre a nuovi modelli che compiono un passo ulteriore verso quella che nell’immaginario collettivo è ascritta come “intelligenza artificiale”.
Watson: analisi, comprensione, risposta
IBM ha spiegato Watson senza entrare nel dettaglio, ma identificandolo come una sorta di “startup” interna all’azienda. Il gruppo vuole infatti capire anzitutto quali siano le sue potenzialità di mercato, coinvolgendo grandi gruppi e piccole startup per disegnare i modelli di business e di sviluppo ottimali per ogni esigenza.
Watson nasce quindi come vera e propria piattaforma: un servizio al quale fare affidamento per estrapolare conoscenza da una serie di informazioni grezze, disordinate e non strutturate. In base all’input immesso e all’output desiderato, Watson si configura come una intelligenza “middleware” in grado di coinvertire l’input testuale, effettuare il parsing dell’espressione, collegare testo e conoscenza, estrapolare relazioni e quindi restituire evidenze. All’utente è lasciata la decisione finale, sulla quale Watson non si esprime: sia l’uomo ad assumersene la responsabilità, favorito però dal ruolo predominante di una macchina in grado di garantire risposte possibili accompagnate da valori statistici relativi alla probabile attendibilità delle singole opzioni.
Un nuovo rapporto tra uomo e macchina
L’Università di Trento è stata tra le prime ad accompagnare Watson nel proprio percorso, mentre vari sono i responsabili del team IBM allocati al progetto (tra i presenti al workshop: Pietro Leo, Alfio Massimiliano Gliozzo e Roberto Sicconi). La creatività italiana e la presenza di un laureato in filosofia nel team sono indizi utili tanto a spiegare la bontà dell’approccio, quanto a chiarire la vocazione stessa del progetto. Il rapporto tra uomo e macchina si appresta a compiere un passo nuovo e la direzione è nota, benché la chimera finale sia ancora lontana: la macchina non è ancora intelligente e non ambisce a definirsi tale. Può però la macchina pensare? Sì, IBM ritiene sia possibile. E Watson ne sarebbe l’esempio, poiché capire un testo, capirne le relazioni, capirne i significati e capirne le conclusioni significa aver raggiunto uno stadio ulteriore che esula dalla semplice comprensione di una query attraverso le parole chiave.