Si torna a parlare di acquisti in-app, bambini che si lasciano prendere la mano e genitori infuriati per quanto speso. Questa volta a finire nel mirino è la piattaforma Play Store di Google, con il motore di ricerca citato in giudizio da una madre di New York, Llana Imber-Gluck, dopo che il figlio ha dilapidato 69 dollari (per l’esattezza 68,95) in moneta virtuale all’interno del gioco Marvel Run Jump Smash.
Google ha creato profitti in modo scorretto promuovendo giochi gratuiti o a basso costo per i bambini, permettendo loro di acquistare contenuti in-game spendendo denaro reale. L’azienda è stata in grado di implementare i controlli necessari, ad esempio il semplice inserimento di una password.
Questa la tesi sostenuta da uno degli avvocati della donna, Shanon J. Carson di Berger & Montague. Va ricordato che si tratta dello stesso gruppo che ha fornito assistenza legale in un altro caso simile nel 2011. Allora l’accusa era però rivolta verso Apple e la piattaforma App Store per i dispositivi iOS: il caso terminò con una sanzione milionaria per il gruppo di Cupertino.
Il funzionamento di Google Play, in realtà, prevede l’inserimento di una password per gli acquisti. Questa funzionalità può però essere disattivata, consentendo di portare a termine senza alcun limite qualsiasi transazione nei trenta minuti successivi. Si può dunque parlare di un concorso di colpa per la mamma in questione, che non si è preoccupata di controllare l’attività del figlio nella mezz’ora dopo aver autorizzato la prima spesa con l’inserimento del codice segreto.
Dopotutto, il successo dei giochi freemium è proprio basato su questa formula: viene proposta una versione completa del titolo senza alcun esborso economico, dopodiché il gameplay è studiato in modo da spingere l’utente (spesso un minore) a optare per un acquisto all’interno dell’applicazione, in modo da sbloccare potenziamenti o contenuti extra. Da qui derivano gli introiti di sviluppatori e software house.