Un ragazzo giapponese è stato portato in carcere con l’accusa di aver prodotto delle pistole fai-da-te, del tutto funzionanti e capaci di esplodere proiettili veri, con una stampante 3D. Le forze dell’ordine, nel corso della perquisizione, ne hanno trovate ben cinque all’interno della sua abitazione di Kawasaki, nella prefettura di Kanagawa. Si tratta del primo arresto di questo tipo per il paese asiatico, una notizia che in queste ore sta facendo il giro del mondo.
A tradirlo sembra essere stato un video caricato di recente su YouTube, in cui Yoshitomo Imura (questo il nome del protagonista della vicenda) ha mostrato pubblicamente il funzionamento delle sue armi. Per la produzione gli è bastato scaricare alcuni file da un sito straniero, per poi darli in pasto ad una stampante 3D. Alla polizia ha dichiarato di essersi occupato personalmente della produzione di tutti i pezzi, assemblandoli poi seguendo le istruzioni trovate sul Web, non sapendo però di commettere un reato.
Al contrario di quanto accade in altri paesi, ad esempio negli Stati Uniti, per i residenti in Giappone la procedura da affrontare per ottenere la licenza necessaria al possesso di un’arma è molto complessa. La normativa è piuttosto severa e ha come obiettivo quello di limitarne il più possibile la diffusione. Non stupisce dunque l’immediato intervento della polizia una volta a conoscenza di quanto prodotto in casa da Imura.
La vicenda ricorda in qualche modo quella legata al progetto Liberator, che lo scorso anno ha visto il Dipartimento di Stato americano intervenire per limitare la condivisione sui circuiti peer-to-peer dei file per la stampa in 3D di una vera e propria pistola. Lasciando da parte questioni prettamente legali e valutazioni morali, si tratta dell’ennesima dimostrazione delle smisurate potenzialità offerte dalle stampanti in tre dimensioni, che possono essere utilizzate per scopi nobili come quelli che riguardano l’ambito medico, l’elettronica o addirittura la cucina. Anche in questo caso la tecnologia è di per sé neutra, a renderla “buona o cattiva” è l’utente, in base all’utilizzo che decide di farne.