Viviane Reding, vice presidente della Commissione Europea da sempre attenta alle dinamiche del Web e dell’Agenda Digitale, ha deciso di schierarsi su una posizione scomoda a proposito della sentenza che nelle ore scorse ha stabilito un nuovo modo di intendere il diritto all’oblio. La Reding ha infatti pubblicamente espresso il proprio plauso per l’approccio portato avanti dalla Corte di Giustizia Europea, secondo cui i motori di ricerca dovranno avere un ruolo maggiormente proattivo nella rimozione delle informazioni che gli utenti richiedono di rimuovere.
La posizione presa dalla Reding sembra non rispondere alle obiezioni sollevate dai più in queste ore, ma parte invece nell’analisi della sentenza da un punto differente. In un post pubblicato su Facebook, infatti, viene espresso ampio favore nei confronti di una interpretazione che svecchi il modo di intendere la rete, spostando il focus dal server al client: non deve più essere importante quel che viene archiviato su uno dei nodi della rete, insomma, ma occorre focalizzare invece l’attenzione sui dati che arrivano sullo schermo dell’utente finale. Per questo motivo, quindi, non bisogna più perseguire chi conserva archivi e informazione, ma bensì chi si fa da tramite nel portare tali informazioni sotto gli occhi dell’utilizzatore finale del Web.
Così facendo l’Europa riuscirebbe a garantire agli europei maggiori tutele, a prescindere dal luogo in cui una informazione è stata archiviata. Tra le righe sembra si possa leggere addirittura qualcosa di ulteriore, poiché la difesa del business in una logica svincolata dai confini nazionali sembra autorizzare anche maggiori filtri al mondo della pirateria gettando ulteriori responsabilità in capo ad intermediari quali i motori di ricerca (libera interpretazione deduttiva basata sul sillogismo enunciato sul social network dalla Reding):
«Big Data» necessitano di «big right», chiosa la Reding: il revisionismo sul diritto all’oblio andrebbe nella direzione voluta dalla Commissione Europea, tale per cui è l’utente ad avere il controllo sui propri dati. Il teorema della Reding non sembra però rispondere ad alcuna delle critiche fin qui emerse a proposito della sentenza: come possono i motori di ricerca gestire un altissimo numero di richieste? Quali parametri possono regolare la scelta di rimozione o non rimozione di un contenuto sulla base del paradigma della pubblica utilità? Quale può essere il ruolo della magistratura nel dirimere contese legate alla rimozione dei dati? Nei commenti la Reding ricorda inoltre che il diritto all’oblio non vada inteso in termini assoluti, che va controbilanciato da libertà di espressione e di informazione, e al tempo stesso spiega che nessuna richiesta di rimozione possa far riscrivere una verità (con un link, infine, rimanda al manifesto programmatico già adottato dall’UE lo scorso 12 marzo).
Il plauso di Viviane Reding sembra supportato da validi principi, insomma, ma non coadiuva appieno l’utente nell’interpretazione di una sentenza dalle mille sfaccettature che apre un’area di deregulation senza offrire indicazioni di intervento. Appare chiaro il fatto che i motori (Google in primis) non dovranno però soltanto sfidare la Curia sul fronte giudiziario, ma anche la Commissione Europea sul piano politico. E alla base di tutto ciò ci saranno preponderanti questioni etiche e sociali.