Nei giorni scorsi la Corte di Giustizia Europea si è espressa con una nuova sentenza sulla delicata questione che riguarda i motori di ricerca e il cosiddetto diritto all’oblio. Il verdetto è chiaro: i cittadini sono in diritto di chiedere a Google (e ai suoi concorrenti, così come anche ai social network) la cancellazione dalle pagine dei risultati dei link che portano a materiale online potenzialmente dannoso o compromettente per la propria reputazione, nel caso in cui le informazioni a cui si fa riferimento siano ritenute inadeguate, irrilevanti oppure ormai non più rilevanti.
Com’era lecito attendersi, le prime richieste non hanno tardato ad arrivare, inviate attraverso i moduli (1, 2) messi a disposizione dal gruppo di Mountain View. Lo ha riferito alla redazione di Reuters una fonte rimasta anonima, ma ritenuta vicina all’azienda. Sulla questione è intervenuto ieri anche il chairman Eric Schmidt, in occasione di un incontro con gli investitori, condividendo il proprio punto di vista e le perplessità su una decisione che costringerà l’azienda a mettere in campo una nuova strategia per la gestione delle richieste.
Ci sono molti risvolti da chiarire. Il modo più semplice per capire cosa è successo è immaginare un punto d’incontro tra il diritto all’oblio e quello a conoscere i fatti. Dalla prospettiva di Google, dovrebbe esserci equilibrio. Analizzando la decisione, che è vincolante, crediamo che l’equilibrio raggiunto sia sbagliato.
Perplessità condivise in modo più articolato anche da un portavoce di Google, subito dopo la pubblicazione della sentenza, applaudita invece da Viviane Reding.
Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’Advocate General della Corte di Giustizia Europea e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni.
Tutti i 500 milioni di cittadini residenti nei 28 paesi dell’Unione Europea sono ora di fatto autorizzati a chiedere direttamente al motore di ricerca l’eliminazione di link che li riguardano indicizzati nelle SERP, senza passare dalle autorità. Per gestire le richieste Google (che domina nel vecchio continente con il 93% di market share), così come gli altri protagonisti del settore, potrebbe essere chiamata a mettere in campo un dispiegamento di forze non indifferente, al fine di valutare ogni singolo caso per decidere se accogliere il reclamo o meno. Nel secondo caso, l’utente sarebbe in diritto di presentare ricorso chiamando in causa un giudice.
Da chiarire anche il passaggio della documentazione in cui si sostiene che sono esclusi da questa dinamica tutti coloro che possono essere definiti delle personalità celebri, poiché i fatti che li riguardano sono da considerare di interesse pubblico. L’ultimo punto da affrontare, ma non meno importante, è come verificare che ogni singola richiesta provenga realmente dal diretto interessato e non da un altro soggetto con interesse nella rimozione dei link dalle pagine dei risultati.
Insomma, la sensazione è quella che la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia Europea non rappresenti un concreto punto di arrivo o di riferimento definitivo per la giurisprudenza sul tema, bensì un ulteriore input alla discussione, necessaria per trovare un punto d’incontro che sappia realmente mettere d’accordo le diverse parti in gioco: da un lato i cittadini e gli organismi impegnati nella tutela della privacy, dall’altra gli operatori del settore che vedono nella decisione dei giorni scorsi uno strumento lesivo per libertà d’espressione e d’informazione.