Un impero costruito su informazioni che non gli appartengono, una società cinica che distrugge gli editori, un volenteroso carnefice al servizio della politica estera americana. La quantità e soprattutto qualità delle critiche e dei veri e propri insulti rivolti a Google è vistosamente aumentata. Complici i dossier aperti in Europa e la accuse dirette di uno come Julian Assange, che al colosso di Mountain View ha dedicato il suo ultimo libro. Big G è il nuovo simbolo dell’impero del male, e dire che è stato fondato sul motto contrario: Don’t Be Evil.
Per sperimentare la crescita esponenziale del fenomeno, basta fare un giro in libreria: la Rete e le grandi società della Silicon Valley sono entrate nel mirino. La carrellata di libri sulla falsariga “Quanto ci hai deluso, Internet” è davvero impressionante, ma è un bene: quando autori come Morozov, Lanier, il Gruppo Ippolita, Staglianò, affrontano per smontarli i falsi miti salvifici di Internet contribuiscono all’educazione digitale e a comprendere la natura capitalistica di queste aziende, che spesso hanno l’interesse a dipingersi come facitrici di lifestyle, non di soli prodotti (vedi il caso di Apple). Meno bene i tanti altri libri che seguono semplicemente la moda e banalizzano terribilmente la questione, lanciando allarmi che mirano a vendere soltanto qualche copia in più e a partecipare ai dibattiti, ma non centrano mai la questione perché si accontentano di demonizzare, personalizzandola, l’infrastruttura e tutto quello che contiene, fino al punto di sfiorare un neo-luddismo piuttosto ridicolo.
Dentro questo movimento di pensiero così frastagliato, Google ha uno spazio speciale. I motivi sono due: il duro atto di accusa di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks che vive da oltre due anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra in una specie di limbo giudiziario; la decisione della Commissione Europea di riaprire l’indagine antritrust su Google, dopo aver capito che la soluzione immaginata sarebbe stata rigettata da tutti. Questi due atti, molto diversi tra loro, costituiscono oggi le colonne d’Ercole all’ingresso di uno spazio ancora inesplorato, forse un’era dove questi nomi, queste società, la Rete stessa, potrebbero incorrere in nuove forme di resistenza e di aperto contrasto.
Google e l’Europa
La notizia che Joaquín Almunia lascerà in eredità la questione Google al suo successore ha subito rimesso in gioco tutti i portatori di interesse, a partire dal più noto avversario del motore di ricerca: Rupert Murdoch. Il magnate proprietario della News Corporation ha dettato una lettera (firmata poi dal CEO Robert Thomson) ad Almunia lo scorso 8 settembre, resa nota qualche giorno fa, che riassume perfettamente anni di scontri e di visioni inconciliabili. Un documento tanto preciso che Jeff Jarvis l’ha commentata passo per passo. Leggere la lettera e le note a margine di un grande evangelista Internet come Jarvis è già partire col piede giusto per approfondire l’argomento coi pro e contro. Nella lettera della News Corp. ci sono passagi emblematici, fin sulla stessa natura di Google.
Google si è evoluta da una meravigliosamente esuberante, creativa startup della Silicon Valley ad un vasto, potente, burocrate spesso chiuso in se stesso, talvolta sprezzante della proprietà intellettuale e che di routine configura i risultati della ricerca in modo tutt’altro che oggettivo. (…) Mentre ci sono molte persone degne della massima stima che lavorano a Google, abbiamo imparato a non fidarci della società. La visione splendente dei fondatori di Google è stata sostituita da una gestione cinica, che offre agli inserzionisti dati incredibilmente precisi sugli utenti e l’utilizzo dei contenuti, ma è diventata una piattaforma per la pirateria.
A questo incipit che la dice già lunga sul rapporto tra un grande editore e Google, si aggiunge una nota sui contenuti aggregati, vecchia battaglia – ormai persa – di Murdoch, quella che sostiene che il modello di business pubblicitario del motore mina il processo creativo di base e la vita dei giornali.
L’unicità dei siti di notizie è stata danneggiata dall’aggregazione di contenuti trasferiti dalla prima pagina alla home page di Google. I lettori sono stati convinti ad accettare questa aggregazione eclatante come la norma. Tracciando i lettori e sfruttando la sua posizione dominante nella pubblicità online, Google sta mercificando il pubblico di editori specializzati e limitando la loro capacità di generare introiti pubblicitari.
Queste tesi di fondo sono abbastanza facilmente smentite da Jarvis, che ricorda come l’aggregazione di contenuti è una vetrina che porta traffico ai siti – e non contiene che sole micro-informazioni – e che gli strumenti di tracciamento degli utenti sono utilizzati massivamente dai banner dei siti delle testate giornalistiche. Ma la questione della genuinità del comportamento di Google sui propri risultati più o meno sponsorizzati invece resta. Probabilmente, l’atteggiamento del governo europeo verso il marketshare di Google nel suo complesso diventerà meno morbido, e Google ha tutto l’interesse ad essere collaborativa. Anche per non dare fiato alle posizioni di editori come Murdoch.
NSA privacy invasion bad, but nothing compared to Google.
— Rupert Murdoch (@rupertmurdoch) August 17, 2014
Assange: Google è il nuovo autoritarismo
E poi c’è lui, Julian Assange. L’ex hacker non potrebbe essere più lontano dal suo connazionale Murdoch, eppure si trovano sul medesimo, lungo fronte. Lo si era già capito con l’articolo uscito nel giugno del 2013 sul NYT, “La banalità del non essere cattivo”, dove sono contenuti tutti gli spunti che hanno portato alla pubblicazione del libro “When Google Met WikiLeaks”, un vero e proprio pamphlet-manifesto per la nuova dissidenza anti-Google. La tesi di Assange è nota: Mountain View ha finito quasi senza accorgersene per diventare braccio operativo dell’intelligence e della politica espansiva americana, non tanto per obiettivi della società, né soltanto perché obbligata dalle leggi americane, ma per una convinta adesione intellettuale al destino positivo delle democrazie guidate dall’informazione. Quel tipo di neo-positivismo dell’algoritmo già preso in giro da Dave Eggers, analizzato da Morozov, ma che in mano ad una persona radicale come il fondatore di Wikileaks diventa presupposto per una battaglia che non fa più differenze tra la lotta al potere politico – che vuole i dati di miliardi di persone per farne cittadini sotto controllo – e la lotta al potere economico che vuole questi dati per fare di miliardi di cittadini consumatori soddisfatti. Il punto di vista di Assange è che si tratta della stessa medaglia.
#Assange: #Google has revolving doors with State Dept | Going Underground https://t.co/in4EbjuvcE more: http://t.co/WLzFBDysqy
— WikiLeaks (@wikileaks) September 20, 2014
Nelle sue interviste (da segnalare quella su ArsTechnica e quella a Stefania Maurizi per l’Espresso), Assange anticipa un concetto complesso, che va studiato sul libro (purtroppo non ancora tradotto, ma già disponibile in inglese su ebook per chiunque): le tecniche adottate da Wikileaks, il numero sempre maggiore di fonti interne anonime, la necessità stessa per l’ecosistema informativo di questi elementi, sono l’unica forma di resistenza possibile a una nuova forma di totalitarismo basato non sulla violenza, ma su un dolce conformismo. Una scommessa difficile, che va giocata per la salvezza stessa della rete e la sua libertà.
L’inerzia e la radicalità
Come giudicare un fronte così largo? E quanto ha ragione? Assange riconosce che esiste una inerzia globale spaventosamente indifferente alla sua visione radicale: se è semplice costruire una dissidenza informativa che compensi l’asimmetria, questa compensazione sarà sempre dovuta a una minoranza di persone. Forse però si può andare oltre, c’è una speranza: continuare a lavorare, seriamente e dal punto di vista politico, per la redazione di una Carta dei Diritti fondamentali del cittadino su Internet, precisando ogni confine economico e giuridico oltre il quale possa scattare una nuova consapevolezza sociale. Un percorso più lungo, integrato, diverso da quello immaginato da Assange, non per forza alternativo. Tuttavia, se la scelta è tra l’inerzia e la radicalità inutile parlare di guerra, perché c’è già un vincitore.