Secondo quanto sentenziato dall’Oxford Dictionary la parola dell’anno è la seguente:
Non una parola vera e propria, dunque, ma una faccina, una emoticon. Anzi, più esattamente una emoji. Il che può far sorridere o può lasciare perplessi, ma incarna perfettamente un cambiamento culturale di grandissimo impatto per la cultura e la linguistica. La notizia è di quelle simpatiche, insomma, che sembrano meritare l’evidenza di qualche ora prima di scomparire. In realtà è una notizia che pone in evidenza un mutamento culturale di lunga durata e di fondamentale importanza, che con il senno del poi descriverà in modo fedelissimo quello che è stato l’impatto delle nuove tecnologie a cavallo tra i due millenni.
«Proprio così», spiega il blog dell’Oxford Dictionary: «per la prima volta, la Oxford Dictionaries Word of the Year è una immagine». Una faccina sola che si fa capostipite di una intera categoria, facendo vincere le emoticon sulle parole, ma al tempo stesso una scelta precisa e motivata.
“Face with Tears of Joy”
Una faccina che piange dalle risate: questa la traduzione della descrizione allegata all’emoticon prescelta. Secondo le analisi SwiftKey utilizzate dall’istituto, la faccina che piange dalle risate è stata la più utilizzata in assoluto, arrivando fino al 20% del totale di quelle usate nel Regno Unito ed al 17% negli Stati Uniti, con una crescita rispettivamente del 4 e del 9% rispetto all’anno antecedente. La stessa parola “Emoji” si sarebbe moltiplicata nell’uso comune, descrivendo così le icone attraverso una parola che le racchiude tutte al di sotto dello stesso cappello.
Interessante è il fatto che il significato più ricercato dalle emoticon sia quello della risata smodata. Quando le emoticon non si erano ancora imposte a seguito dell’assenza di un uso semplificato delle immagini nel testo, era consuetudine utilizzare dapprima elementi quali “LOL“, acronimo di “lots of laughs”, e poi “:-)”. Così come “LOL” e “ROTLF” (“Rolling on the floor laughing”) erano tra le più usate e rappresentative, poiché indicanti una risata smodata altrimenti difficile da descrivere con parole sufficientemente esplicative, così oggi la medesima emozione passa tra mittente e destinatario del messaggio attraverso un’icona di immediata comprensione. Le lacrime aggiungono alla risata classica un qualcosa di ulteriore, quasi mimico: era tipico del film muto una mimica facciale “esagerata”, per mettere maggiormente in risalto le emozioni, ed oggi una icona di questo tipo svolge per molti versi medesima funzione.
La parola “Emoji”
La parola Emoji, di origine giapponese, mette assieme una serie di significanti quali “Emotion” (emozione) e “Moji” (lettera, carattere), strizzando l’occhio alla più tradizionale “Emoticon” usata ormai da decenni per descrivere le cosiddette faccine. In tutti questi casi la parola utilizzata è una crasi che accosta i significati di icona e di emozione. La spiegazione ufficiale può essere lasciata all’Accademia della Crusca, le cui parole si fanno in tal caso oltremodo significative proprio per la fonte “istituzionale” delle stesse:
Emoji: prestito dal giapponese 絵文字, pronunciato [emodʑi], composto di e ‘immagine’ e moji ‘lettera, carattere’.
Tale descrizione è accettata proprio da quell’Oxford Dictionaries che oggi premia una Emoji come parola dell’anno. Ma continua l’Accademia della Crusca:
Il termine, ancora troppo nuovo per essere registrato dai principali dizionari italiani, è trattato nella“Enciclopedia di scienza e tecnica” della Treccani, dove leggiamo che, a differenza delle emoticon, di cui possono essere considerati un’evoluzione commerciale, gli emoji sono “un’enorme serie di simboli (ognuno disegnato su una griglia grafica di 12×12 punti) raffiguranti ogni genere di oggetto (da treni, aerei, matite e buste da lettera, a faccine, cuoricini e animaletti, a rappresentare concetti, relazioni ed emozioni)”; non più sequenze di segni della tastiera, insomma, ma veri e propri pittogrammi che non comprendono solo faccine con varie espressioni, ma anche immagini di altro genere.). La Treccani attribuisce al termine il genere maschile (chiaramente invariabile).
Nonostante la Treccani vi attribuisca genere maschile, in rete il genere femminile sembra avere la meglio. A tal proposito l’Accademia della Crusca lascia che sia il linguaggio “volgare” a stabilire una regola, che l’Accademia probabilmente formalizzerà soltanto una volta consolidato lo stesso nell’uso collettivo:
A favore del femminile agirà l’accostamento con emoticon, verso il maschile il fatto di considerarli dei simboli. Saranno gli utilizzatori della parola, e il tempo, a decidere quale genere prevarrà, anche se già adesso è possibile adeguarsi a quanto proposto dalla fonte a oggi più autorevole ad aver trattato il termine, e usare emoji al maschile, che del resto è il genere che viene prevalentemente assegnato ai forestierismi.
Emoji e parole
Il riconoscimento delle emoji al rango di parole è un salto fondamentale poiché mette sullo stesso piano due significanti che vorrebbero trasmettere medesimo significato: tanto le parole quanto le icone inseguono l’obiettivo di trasmettere il massimo significato possibile nel minor tempo possibile. Si tratta di una sorta di economia linguistica universalmente riconosciuta: quanto più un elemento è in grado di sprigionare un significato, quanto più se ne rende simbolo riconosciuto. L’emoticon avvicina l’idea degli ideogrammi, ma al tempo stesso cavalca l’impatto emotivo immediato che il volto umano è in grado di suscitare (un istinto ancestrale marchiato a fuoco nel nostro DNA).
L’emoticon, derisa per decenni come strumento superficiale di non-comunicazione, è quindi elevata di rango e conquista una propria dignità. Lo fa con la forza che le è propria. L’emoji è oggi parte integrante dei sistemi operativi mobile, è entrata con prepotenza nelle tastiere utilizzate sugli smartphone, fa parte di qualsivoglia messenger che voglia conquistare mercato ed è regolarmente elemento comune di qualsivoglia comunicazione digitale. L’accettazione istituzionale delle emoji è il passaggio definitivo ad una cultura linguistica postmoderna che supera i retaggi dell’oralità e della scrittura per approdare ad una nuova formulazione ibrida in cerca di codifiche strutturate.
La più grande novità rispetto ai decenni passati è nel fatto che le regole non siano più dettate dai dizionari, ma dall’uso comune: i dizionari fotografano la realtà e la ripropongono, assorbendo ogni anno nuovi neologismi che emergono dall’attualità. Ne sono esempi tipici parole come “selfie”, che va ormai oltre la parola “autoscatto” proprio grazie ad una serie di accezioni contestuali che trasformano il sinonimo in qualcosa di ben più significativo. Gli stessi dizionari sembrano anzi tagliati fuori perché quanto più emotivo è il codice linguistico e quanto meno codificato diventa lo stesso, tanto più si fa inutile il ruolo di chi si assume il ruolo di codificare lo stesso.
Se L’Oxford Dictionary premia una faccina come “parola dell’anno”, dunque, si apre formalmente una nuova era sia per la lingua che per i dizionari. Nella quale le parole sono un po’ meno istituzionali, nella quale le Emoji sono più considerate e nella quale il linguaggio orale e il linguaggio scritto sono realtà che si avvicinano definitivamente fino a toccarsi e contaminarsi. L’ibridazione è un fenomeno onnicomprensivo e il linguaggio non sfugge a questa dinamica.