Non c’è sostenibilità se non c’è una visione di lungo periodo che consenta di passare da un punto di partenza (del quale occorre avere consapevolezza) a un punto di arrivo (per il quale occorre avere ambizione). Spesso, durante l’ultima conferenza sul clima di Parigi, sembrano essere mancate entrambe le componenti. E il risultato è quello che l’Amministratore Delegato Eni, prima ancora dell’inizio della COP21, aveva intravisto:
C’è un esercizio molto istruttivo che andrebbe fatto in questi giorni, mentre il mondo converge a Parigi per la COP21: sfogliare la rassegna stampa della COP15 di Copenaghen del 2009. I titoli dei giornali di allora raccontano le aspettative della vigilia, le difficoltà dei giorni di dibattito e la delusione finale. “L’Europa è rimasta sola”, era il concetto che riassumeva tutto. A Parigi non deve finire così, ma senza lo sforzo di tutti il rischio è alto.
Lo sforzo non sembra essere invece stato profuso fino in fondo, proprio come previsto. Gli eventi che hanno anticipato la conferenza, nonché le tensioni delle settimane che l’hanno accompagnata, hanno portato la COP21 a suonare in tono minore, quasi che l’allarme ambientale urlato dai ricercatori perdesse improvvisamente di urgenza di fronte ad altre problematiche di politica internazionale. Il rischio è quello di aver perduto l’ennesima opportunità perché, in assenza di una visione di lungo periodo, ognuno continuerà a tracciare un’agenda propria senza coordinare, né stimolare, una agenda transnazionale con l’obiettivo dell’abbattimento delle emissioni.
Laddove serviva uno slancio di coraggio, se ne è usciti con un compromesso al ribasso. E questo ha deluso la critica, ha deresponsabilizzato le istituzioni e costringe a tener alto l’allarme di fronte a possibili danni irreparabili per l’ambiente.
Sostenibilità senza utopie
Troppo spesso la ricerca della sostenibilità è accompagnata da una visione utopica della realtà. Un’eccessivo entusiasmo nei confronti dell’innovazione, accompagnato da superficiale desiderio di rivoluzione, porta a moti di “ribellione green” che vorrebbero un mondo rapidamente convertito al fotovoltaico e alla mobilità elettrica, come se tutto potesse funzionare a seguito della semplice approvazione di un decreto o con il semplice impegno di cittadini di accresciuta sensibilità. Ma così non è e, se non si inizia presto a fare i calcoli con la realtà, si rischia di perdere anche il prossimo treno. E quello successivo ancora.
Per raggiungere la sostenibilità ed un rapporto più equilibrato con il pianeta occorre pertanto sgombrare anzitutto il campo dalla superficialità di approccio: la conversione alle fonti rinnovabili deve essere progressivo e pilotato, organizzato dal punto di vista strutturale, coordinato a livello centrale, frutto di un concordato continentale chiaro. Perché, quando così non è, si rischia di peggiorare la situazione nel nome dell’ecologia. Rileva Descalzi: «abbiamo favorito una rilevante contraddizione nell’evoluzione dell’energy mix europeo. Cosa è successo? In primo luogo le scelte sulle rinnovabili, unite alla debolezza interna del mercato europeo, hanno portato a costi dell’energia tre volte superiori a quelli americani, danneggiando la competitività industriale e gravando sulla spesa delle famiglie. Poi abbiamo sbagliato nel decidere come accompagnare lo sviluppo delle rinnovabili. La scelta più logica e con il minor impatto ambientale sarebbe stata il gas naturale, ma l’Europa ha affidato tutto al solo mercato ed ha come esito un boom della risorsa più economica disponibile: il carbone».
Nel voler giocare al ribasso senza averne le possibilità, l’Europa si è trovata a vivere una pesante contraddizione, peraltro con differenti ritmi a livello continentale: «È utile in tal senso un raffronto tra il “modello tedesco”, orientato alle rinnovabili ipersussidiate senza limiti sull’uso del carbone, e la strategia britannica di switch-off dal carbone al gas attraverso il cosiddetto sistema EPS, che premia la performance. In 7 anni, la diminuzione delle emissioni in Germania è stata oltre quattro volte inferiore a quella del Regno Unito, che invece ha scommesso proprio sul gas in combinazione con una “via nazionale” alle rinnovabili». Perché questo è accaduto: i sussidi alle rinnovabili sono stati la foglia di fico con cui coprire politiche che in nessun modo hanno arrestato la crescita del carbone. A conti fatti, quindi, i sussidi diventano inutili e le politiche ecologiche sbandierate sono in molti casi mero formalismo privo di risultanze.
La strada per le rinnovabili, insomma, è lastricata di buone intenzioni, ma è stata tracciata senza ordine alcuno. Se non con dolo, fino a portare addirittura più lontano dalla meta che ci si era prefissati. Secondo Eni l’obiettivo della decarbonizzazione va perseguito attraverso il gas, risorsa su cui il gruppo sta puntando forte proprio come exit way da una situazione altrimenti bloccata. Il futuro va dunque immaginato a cavallo tra le rinnovabili e i giacimenti gassosi disponibili:
Siamo convinti che il gas naturale sia complementare alle rinnovabili e contribuirà a soddisfare buona parte del fabbisogno mondiale di energia nei prossimi decenni, in uno scenario meno inquinante e più sostenibile.
Sostenibilità e geopolitica
Inevitabilmente le politiche energetiche e quelle geopolitiche si intrecciano. Mai come oggi, però, questa intersezione sembra diventare un fattore in grado di promuovere politiche di pace e di stabilizzazione. Le tensioni in atto e note guerre di mercato hanno infatti portato al tracollo del prezzo del petrolio, il che non favorisce però di certo la conversione di sistemi industriali e mobilità all’elettrico (banalmente: perché investire in costose auto elettriche se il ribasso dei carburanti non ne rende vantaggiosa la scelta? E perché pensare ad investimenti di lungo periodo se il basso costo del petrolio rischia di farsi strutturale?). Inoltre l’importanza del Medioriente e del Nord Africa in questi ambiti è cruciale e una stabilizzazione della situazione non potrebbe che giocare a vantaggio del continente europeo. Eni, ambasciatore de facto nei territori in cui opera, ricorda che da tempo predica politiche differenti per un’area su cui solo ora si posano gli occhi dei grandi del pianeta: soltanto al cospetto dello spauracchio del Califfato.
Anche in quest’ottica, non è possibile ragionare sul tema sostenibilità al di fuori delle utopie o dell’approccio semplicistico a situazioni che annidano nei secoli i motivi della propria instabilità. Lungi dal cercare soluzioni laddove la soluzione non può essere calata dall’alto, quel che potrebbe invece tornare utile a tutti è una semplice stabilizzazione. Cosa che, peraltro, potrebbe giovare a molte economie, offrendo così un motivo più che valido per cercare strette di mano e nuove distensioni. La sostenibilità ambientale e maggiori equilibri geopolitici potrebbero essere due facce della stessa medaglia, insomma: «Abbiamo contribuito alla costituzione dell’Oil & Gas Climate Iniziative (Ogci), una piattaforma comune con le altre major per la promozione di tutte le misure utili a ridurre le emissioni. E con 5 compagnie petrolifere europee, abbiamo sottoscritto una lettera pubblica, la scorsa estate, per richiedere, proprio in vista di Cop 21, l’introduzione a livello mondiale di meccanismi di carbon pricing. È qui, a nostro avviso, che va fissato il pilastro di un’intesa internazionale che vincoli sia i Paesi avanzati sia quelli emergenti, superi la frammentazione attuale e favorisca, disincentivando le tecnologie inquinanti, l’affermazione di un paradigma low carbon capace, al contempo, di non ingenerare squilibri competitivi tra Paesi».
C’è voglia di sostenibilità in virtù di quella che è sempre di più metabolizzata come una necessità assoluta e urgente. Tuttavia non c’è ancora il coraggio di lavorare per una visione collettiva. Non tutti hanno allineato gli obiettivi propri a quelli collettivi e questo determina scompensi e ritardi che si rischia di pagare a caro prezzo.