L’Italia del digitale cresce. A far discutere, però, sono il quanto, il come e il perché. E tra le righe c’è l’odore diffuso di una guerra di posizione, un “o con noi, o contro di noi” che fa parte della più vecchia tradizione campanilistica nazionale, ma che poco può fare per aiutare il paese a raggiungere l’obiettivo. E forse ci sarebbe da discutere molto anche sull’obiettivo stesso, peraltro. Il risultato finale è che si discute molto, ma si cresce poco. Pochissimo. Forse nulla, al netto di un trend naturale che porterà l’Italia presto o tardi dove vorrebbe essere già oggi. E se non ci sono meriti da distribuire, chiunque accampi pretese rischia di rimanere al palo con il dovere opposto di fare i conti con le proprie responsabilità.
Leggere i dati Eurostat
I dati sono quelli diramati da Eurostat a fotografia di quel che è stato il 2015 della digitalizzazione in Europa. Il cuore del problema si concentra su due numeri: 32 e 28. Il primo indica la percentuale di italiani che nel 2014 non si erano ancora mai connessi al Web; il secondo indica lo stesso parametro, proiettato però sull’anno 2015. Secondo i dati Eurostat, insomma, il 4% degli italiani si è connesso al Web per la prima volta nel corso dell’anno. Il dato di per sé appare poco significativo per due motivi: il primo è che si tratta di un aumento maggiore rispetto ad altri paesi europei, ma al tempo stesso si tratta di un aumento che parte da una base svantaggiata – pertanto con maggior possibilità si possono incontrare crescite percentuali maggiori (semplice illusione matematica, insomma); il secondo è che non si tratta di una prima volta: fu 4% già tra il 2007 e il 2008, 5% tra il 2008 e il 2009, 6% tra il 2009 e il 2010, anni peraltro in cui gli investimenti nella “propaganda” del digitale non erano certo quelli odierni. Né i motivi per passare al digitale erano forti e numerosi quanto quelli attuali.
Riccardo Luna, Digital Champion italiano, è il primo a sbandierare i rilievi Eurostat come un successo sulle pagine de La Repubblica: si parla chiaramente di uno “scatto in avanti”, balzo che nessun numero sembra però argomentare. Alcuni commenti su Facebook prima ed alcune disamine poi («Si tratta di un discorso dalla logica fragilissima. Noi non siamo stati i migliori come Riccardo sembra suggerire», Massimo Mantellini) gettano le basi del beneficio del dubbio: i numeri descrivono un successo, una sconfitta o semplicemente una inerzia grigia che fotografa l’attuale incapacità italiana ad un colpo di reni nel mondo del digitale?
«L’impressione è che questa impennata di nuovi utenti si debba a qualcosa di molto meno poetico: la fatturazione elettronica obbligatoria»: Riccardo Luna sembra accreditare gran parte di questa crescita ad un nuovo rapporto con la pubblica amministrazione, tenendosi in mano ancora le carte dei fablab, dei corsi di coding e della crescita delle startup. Nessuno di questi assi sembra però essere utile a spiegare un balzo che balzo non è. I fablab e le startup sono dinamiche avanzate che coinvolgono utenti con skill di un certo tipo, i corsi di coding coinvolgono fasce d’età non fotografate dai dati Eurostat (inerenti infatti la fascia 14-74 anni) e la fatturazione elettronica può aver coinvolto qualche migliaio di persone in tutto il paese, con ogni probabilità in buona parte già pronte ad agire online prima ancora che la fatturazione elettronica divenisse prassi obbligatoria.
Le email non sono cresciute: sono usate dal 53% degli italiani oggi come lo erano un anno prima (lo strumento del resto è in difficoltà ormai da tempo, surclassato da nuovi sistemi di messaggistica che prediligono l’interazione sincrona o comunque interfacce più ricche e interattive). Cresce l’accesso alla banda larga, ma il dato meriterebbe lunghe considerazioni fatte di “se” e di “ma”: cosa si intende per “banda larga”? Quanto la domanda è cresciuta in seguito a semplice disponibilità di connessione e quanto per reale impulso da parte dell’utenza? Si usa la banda per far giocare i ragazzi online, per ascoltare musica in streaming, per guardare le previsioni meteo su app pre-caricate, o per rapportarsi con la pubblica amministrazione? L’e-commerce è cresciuto? Quanto pesa la crescita dei social network rispetto ad azioni politiche, decreti e iniziative di promozione?
La risposta a queste domande è sempre la stessa: si cresce, ma poco e male. Come pizzicati all’interno di un meccanismo automatico che porta per forza di cose verso la digitalizzazione, ma senza alcuno “scatto”, senza alcuna impennata, senza alcuna pulsione vera. Una sorta di scala mobile che viene subita, invece che affrontata. cresciamo perché quasi non possiamo farne a meno, ma facciamo ben poco per stimolare in modo efficace questo trend.
Muore l’Italia analogica, cresce l’Italia digitale
Paradossalmente si potrebbe computare l’attuale crescita del digitale italiano con una semplice valutazione spannometrica legata al naturale avvicendamento generazionale. Ogni anno, infatti, in Italia nascono circa 500 mila bambini e muoiono circa 600 mila persone (il resto del bilancio è costituito da flussi migratori e di spostamento verso l’estero). Basta questo dato per sterilizzare almeno il 30% del fantomatico scatto di crescita registrato, poiché accreditabile non tanto ad azioni volontarie, quanto allo stato di fatto di nuovi nati che crescono circondati da device e sistemi basati sul digitale.
Muoiono persone cresciute in un mondo non-digitale, insomma, e ne nascono di nuove che crescono in un mondo digitale: normale avvicendamento, che sostituisce gli skill delle nuove generazioni a quelle dei nonni e dei genitori. Se poi si considera che le famiglie italiane che più facilmente si avvicinano al Web sono sempre quelle con figli a carico, allora ecco che il maggior attore della digitalizzazione nazionale viene ad essere… il tempo che passa. Il che, però, non distribuisce merito ad alcuno e in alcun modo: semplicemente, l’Italia cresce grazie alle nuove generazioni che crescono nutrendosi di digitale e portano il digitale nelle case e tra le famiglie. In modo naturale. In modo capillare. Senza coscienza alcuna a promuoverne gli impulsi. In questo possono far molto le scuole, le amicizie e i social network, ma la possibilità di incidere è ben più altra tra le generazioni in entrata (ove il problema è soltanto relativo) che non in quelle in uscita (ove la cronicità del problema non sembra trovare soluzioni).
Cosa serve all’Italia per innamorarsi del digitale? Serve anzitutto un ecosistema nel quale la promozione del digitale non sia calata dall’alto, ma coltivata. Il digitale non può essere una imposizione, ma soltanto un contesto. Deve essere un ambiente che accoglie e aiuta chi sta cercando nuove opportunità, e che in tale condizione di necessità si configura in modo particolarmente recettivo. Non saranno certo talune proposte del passato e certe considerazioni odierne sui “pericoli” del Web a facilitarne l’incontro con chi vive tranquillamente offline le proprie certezze. Evitare di descrivere il Web come un “far west”, un buco nero della privacy e un luogo di cyberbulli potrebbe migliorare l’educazione generale sullo strumento facilitando automaticamente anche la risoluzione dei problemi effettivamente esistenti.
Ma soprattutto, non ci si innamora su indicazione altrui: ci si innamora soltanto quando ci sono le condizioni, il colpo di fulmine, l’incontro fatale. Non c’è alcuna narrazione o contro-narrazione a poter descrivere l’intreccio della digitalizzazione. E forse la digitalizzazione stessa saprà esprimersi al meglio quando sarà ignorata come obiettivo, ricordandosi una volta per tutte che può essere solo e soltanto uno strumento. L’Italia, infatti, non ha bisogno di essere più digitale: ha bisogno di offrire più opportunità, di ridurre i costi della pubblica amministrazione, di ridurre la burocrazia alle aziende, di aumentare i posti di lavoro. Il digitale può servire a tutto ciò? Certo, eccome, purché non lo si renda dolosamente un obiettivo ultimo.
Il mezzo rimanga il mezzo. Il fine rimanga il fine. Quel giorno, forse, avremo una impennata nel digitale. Ed in tal caso sapremo sicuramente a chi renderne merito, perché, e come approfittarne per fare dell’Italia un paese migliore.