Twitter è nudo. Non ci si può nascondere dietro una foglia di fico trasparente, ormai: celata la propria reale consistenza dietro al grandissimo hype sollevato per molto tempo attorno al brand, ora è il momento di fare i conti e di affrontare la dura realtà. E la dura realtà parla da sola: i numeri non crescono, i top manager se ne vanno, l’azione continua la sua discesa in Borsa e nel frattempo la grande uccelliera continua a seminare i suoi tweet sperando di venderne qualcuno.
Ma nel meccanismo sembra essersi inceppato qualcosa. Le analisi sul punto sono varie e tardive, perché che il sistema Twitter non funzionasse era chiaro ormai da troppo tempo (anche se molti, spesso per interesse, seguiteranno a negarlo ancor ora): per anni Twitter si è retto sulla partecipazione di un certo tipo di utenza, ha sollevato il proprio brand grazie allo star system e ad una certa connivenza con il mondo televisivo, ma tutto ciò si è dimostrato scarsamente remunerativo. Ed è qui che spesso le grandi teorie crollano: al cospetto della trimestrale, il fumo deve mostrare l’arrosto o gli investitori chiederanno risposte.
Ed è questo quel che sta accadendo.
I fatti
Le ultime trimestrali hanno dimostrato un fatto inoppugnabile: mentre Facebook ha ormai raggiunto e superato il miliardo e mezzo di utenti, Twitter rimane al palo attorno ai 320 milioni e fatica a crescere. Il tutto, peraltro, in assenza di reale concorrenza all’ombra di Zuckerberg: Snapchat e altri funzionano su altri paradigmi, Instagram ha scalato le posizioni con rapidità, mentre Google+ continua ad operare a fari spenti senza scommetterci troppo su. Eppure ogni giorno leggiamo tweet di politici, star del cinema, cantanti, influencer-più-o-meno-influencer e molte altre voci grosse, con Twitter puntualmente presente su articoli online e virgolettati giornalistici, nonché nelle rassegne stampa dei moderni all-news satellitari. Perché, nonostante l’invadente e clamorosa sovraesposizione del nome, Twitter non cattura nuove utenze? Perché non sfonda? Perché non cresce?
Non solo: mentre un utente medio passa 42 minuti al giorno su Facebook e 21 su Instagram, su Twitter il minutaggio scende a 17 (il dato è relativo ad una misurazione di poco più di un anno fa e nel frattempo tutto lascia pensare che la situazione non sia in alcun modo migliorata, anzi). Tale cifra ha importanza sotto molti punti di vista: lo è per l’inserzionista in cerca di una vetrina, lo è per l’influencer in cerca di attenzione, lo è per un social network in cerca di un rapporto fidelizzato con la propria community.
Allo storytelling dell’hype occorre infatti opporne un altro di tenore uguale e contrario: quello di Wall Street. Il titolo TWTR valeva 70 dollari a inizio 2014, è sceso a 40 l’anno successivo ed è oggi ben sotto quota 20 (le uniche oscillazioni verso l’alto sono fomentate più da speculazioni su nuovi potenziali investimenti che non dal raggiungimento di migliori risultati). Come può un brand sulla bocca di tutti passare da 70 a 16 dollari in soli due anni, proprio gli stessi anni nei quali l’andamento avrebbe dovuto invece essere al rialzo (o almeno in consolidamento delle grandi promesse portate in dote)? Come può un titolo crollare proprio mentre il brand passa di bocca in bocca con enorme esposizione mediatica? Perché questa forte discrasia tra il valore reale delle azioni e il valore percepito del social network? Solo mera incapacità di monetizzare, oppure c’è qualcosa di più?
Il “va e vieni” dei CEO prima e il biglietto di sola andata per i top manager negli ultimi giorni hanno dimostrato che le radici sono deboli e l’uccellino è malato. Le cause? Tutte da identificare, ma le scuole di pensiero iniziano a sputare fuori le prime sentenze con sempre maggior coraggio. Finalmente, verrebbe da dire, attorno a Twitter si alza una riflessione più seria e compiuta, al netto dei facili entusiasmi di community che, per motivare sé stesse, hanno anzitutto bisogno di esaltare il ruolo e l’importanza del proprio dominio, ossia la piattaforma utilizzata per misurare la propria influenza.
Twitter è nudo: i motivi
Cos’è Twitter?
Se la domanda è banale, spesso ad essere ben più banali sono le risposte. Perché non si tratta semplicemente di asserire che sia un social network, ma di definirne le peculiarità, i punti di forza, i punti di contatto e distinzione rispetto alla concorrenza. Cos’è dunque Twitter? Per molti potrebbe essere infatti mero rumore di fondo, perché non per tutti è così semplice individuarne il valore; per molti può essere un occhio aperto sul mondo quando si riescono a seguire i trend di reale interesse e si è capaci a filtrare il rumore dal contenuto di valore; per molti altri può essere puro intrattenimento, o una bacheca da scorrere in cerca di adrenalina facile; per alcuni è diventato ricerca di pubblico, per altri è semplice accumulo di follower, per taluni è mero second screen. Un po’ di tutto, molto di niente: il rischio è di non avere un motivo vero e forte con cui posizionarsi e con cui sfidare il semplicistico (e per questo di successo) concetto di “amicizia” con cui Facebook ha conquistato il mondo. Ma una crisi di identità può essere quanto di peggio possa accadere per un servizio che ancora deve dimostrare di saper diventare profittevole e sostenibile.
Questa confusione è in larga parte addebitabile a Jack Dorsey, Evan Williams e Dick Costolo (susseguitesi negli anni alla guida del gruppo), i cui indirizzi non sono sempre stati lineari e chiari. Affrontare e risolvere una crisi di identità è il minimo per un network che ha avviato una moltitudine di sperimentazioni senza mai lasciar trapelare una linea evolutiva definita che possa lasciar ipotizzare una guida serena ed una visione chiara. Twitter è quel che è a seguito di grandi investimenti, importanti acquisizioni ed il continuo affluire di VIP in cerca di una facili vetrine. Ma dopo l’idea originale, poco si è fatto per affinare un progetto rimasto ancorato ai limiti dei suoi 140 caratteri.
Cosa è dunque Twitter e soprattutto cosa vuol essere? Se la risposta rimane “un social network da 140 caratteri”, allora non resta che scrollare le spalle e rassegnarsi all’ineludibile. Se invece si auspica la maturazione del gruppo e del servizio, occorre cercare una risposta partendo dalla moltitudine di spunti interpretativi con cui si cerca quotidianamente di capire meglio questa incredibile e nebulosa realtà.
Questione di carattere e di caratteri
Questione di carattere, insomma: finché Twitter non ha le idee chiare su ciò che vuol fare da grande, sarà difficile programmare un percorso a tappe in grado di misurarne le potenzialità reali. A partire dal numero dei caratteri in uso.
140 caratteri sono sufficienti per esprimere un concetto? Nel tempo Twitter ha cercato di estendere lo spazio utile per i contenuti al netto del format iniziale, ma da settimane si rincorrono le voci di un radicale cambiamento di orizzonte con estensione dei messaggi fino a 10 mila caratteri. Cosa cambierebbe? Tutto. Snaturando completamente la natura del network. Tanto da far pensare che ai vertici abbiano capito che 140 caratteri siano il limite principale al valore dei contenuti veicolati: o si cambia, rischiando di allontanare il favore degli utenti appassionati, o si continua, cercando altre vie per calamitare contenuti di valore oltre al solo Periscope (che già nel breve periodo certamente non basterà).
140 caratteri non sono un concetto, ma la banalizzazione dello stesso. Nell’ottica di un’ipotetica intelligenza collettiva, Twitter è lo specchio frammentato nel quale fotografare un intero contesto, ma tutto ciò non sembra servire, né pagare. Il format dell’SMS appare ormai superato e non solo in termini quantitavi: non si può infatti misurare in caratteri un flusso comunicativo che è ormai sempre più ricco di fotografie, GIF animate, video, live streaming e molto altro ancora. E se non si inietta energia all’interno dei singoli atomi, difficilmente si potrà arrivare alla reazione in grado di cambiare il volto e le sorti dell’uccellino.
Aumentare i caratteri basta? No, con ogni evidenza no. Il cambiamento non sarebbe decisivo, ma sarebbe comunque il segno di un nuovo percorso intrapreso. Guardare all’aumento del numero dei caratteri come ad un elemento risolutivo sarebbe pertanto sciocco e banale, tuttavia una eventuale decisione in tal senso sarebbe l’indizio di una nuova direzione.
Twitter? Difficile
Walt Mossberg si dice certo che il problema stia nell’eccessiva difficoltà d’uso del servizio. Tante piccole funzioni, il cui valore non è spesso noto a chi ne fa uso, non fanno altro che parcellizzare il valore senza esprimerlo appieno. Stesso discorso vale per il numero dei tweet disponibili e l’assenza di strumenti in grado di mettere in evidenza quelli che contano realmente: ci si trova troppo facilmente con molti aggiornamenti da seguire, ma semplicemente li si ignora a causa del tempo che servirebbe per avere uno sguardo anche minimo sul totale. Questo problema è noto da tempo, peraltro: la visibilità dei singolo tweet è di pochissimi secondi, dopodiché le bacheche mandano tutto in archivio e il tweet è dimenticato. Solo i retweet possono salvare un messaggio (dei cuoricini invece già si è parlato a sufficienza), ma la dinamica è spesso poco meritocratica e molto legata alle cerchie di influencer che tendono a colonizzare il canale (a vantaggio proprio, solitamente, invece che a vantaggio dell’informazione e della collettività).
La stroncatura di Mossberg è di quelle che lasciano il segno:
Mi piace Twitter. Vi imparo delle cose. Qui promuovo i miei lavori e qui cito il lavoro altrui. Valuto seriamente le critiche civili ai miei testi che vi trovo. Come milioni di altre persone la scorsa settimana, ho condiviso qui le foto della tempesta di neve. Ma Twitter ha bisogno di più di un migliore algoritmo del news feed e di post da 10 mila caratteri. Ha bisogno di un reale ripensamento.
Malato-by-design, insomma: a mancare è un’idea di fondo che sortisca un’esperienza d’uso piacevole (ben s’intenda: piacevole per molti), utile (per molti) e in grado di trattenere l’utente (per tutti). Il che fa pensare ad una soglia critica di utenti ormai raggiunta, senza possibilità di crescita ulteriore in assenza di un radicale cambiamento di rotta. Della stessa idea anche Joshua Topolsky del The New Yorker: «Twitter è troppo confuso e indifferenziato rispetto al mercato, tanto che è sempre più difficile avere un motivo chiaro per la sua esistenza», ossia non c’è un punto forte e di distinzione in grado di fare di Twitter uno strumento di importanza imprescindibile per un qualsivoglia motivo.
Twitter? Autoreferenzialità e cerchie chiuse
Pochi utenti scrivono la maggior parte dei contenuti; molti utenti non seguono il social network, limitandosi ad accedervi sulla base di embed o di suggerimenti televisivi; alcuni limitano il proprio account ad un feed automatico. Il quadro generale va nella direzione dei media mainstream, ove pochi personaggi conquistano gran parte delle attenzioni all’interno di una dinamica che si autoalimenta. E se ognuno di noi aveva il suo quarto d’ora di celebrità, anche questo concetto sembra ormai frammentato in retweet e senza la capacità reale di pesare l’attenzione raccolta.
L’autoreferenzialità di Facebook è, di fondo, parte del concept stesso: bacheche e amicizie sono il cuore della relazione che si costruisce con la propria cerchia. Un’autoreferenzialità utile, insomma, poiché finalizzata alla costruzione di processi. Twitter vive invece sull’apertura totale e sulla possibilità di seguire chi si preferisce: non si cerca una vera relazione uno-a-uno, ma soltanto un monitoraggio a distanza di quelle che sono più fonti che non amicizie. Legami più fragili, cercando nulla più di una grande rassegna quotidiana sulle novità che le singole autoreferenzialità esprimono. Distribuire retweet come sguardi di complicità (pochi e mirati) è il lavoro quotidiano di quanti intendono costruirsi una posizione, ma a viaggiare sul retweet troppo spesso non è il messaggio: è il mittente.
Quella che nella teoria è la più grande rete aperta e trasparente del mondo, in realtà si trasforma in un flusso dalle logiche mainstream nel quale pochi parlano e molti ascoltano, il tutto condito da quella fastidiosa sensazione per cui ogni intervento si trasformi rapidamente nel brodo primordiale di un grande rumore di fondo. La situazione italiana è chiaramente esacerbata da una dimensione che favorisce la frammentazione e la polarizzazione, ma proprio ove il mercato è piccolo ecco che Facebook sembra non aver avuto rivali. A dirlo sono i numeri. E Twitter ha chiaramente perso.
Twitter è second screen
Nel 2014 l’argomento più discusso in assoluto su Twitter in Italia può essere racchiuso sotto l’etichetta “tv”. Secondo i dati della ricerca Blogmeter “Twitter in Italia dal 2013 ad oggi” firmata da Vincenzo Cosenza, ben il 33% degli hashtag più utilizzati è in qualche modo inerente a contenuti e dinamiche proprie del mezzo televisivo. Ma non solo: la medesima ricerca indica l’orario primetime (21-23) come quello in assoluto più popolato di tweet e gli hashtag più usati in assoluto hanno in gran parte una comune radice televisiva.
Sembra chiaro, insomma, che la natura di Twitter (quantomeno in Italia) sia profondamente connaturata ad una dimensione di second screen. Se questa caratteristica può essere per molti versi un punto di forza e di distinzione (a cui Facebook non ha ancora saputo opporsi a sufficienza), per contro può essere un limite: vivendo di tv, si vive in subordine ad agende, tendenze e fortune altrui. Ovviamente Twitter non è solo second screen, ma la tv è chiaramente una componente di enorme peso specifico nel mix che popola il database del servizio nel nostro paese. Cosa succederebbe se Facebook escogitasse un modo per portare a sé gli utenti che commentano in diretta mentre guardano Masterchef o il Festival di Sanremo? I conti son presto fatti.
Fuggire da Twitter?
No, e perché mai? Twitter è un grandioso strumento di comunicazione, tra i principali social network al mondo, popolato da utenti interessanti, feroce ironia e quotidiani spunti di riflessione. Ha inoltre caratteristiche peculiari (sempre meno) e capacità ineguagliabili (sempre più sottili) per comunicare certe cose, in certe situazioni, con un certo tipo di utenza. A volte, insomma, è in grado di esprimere valore.
Fuggire sarebbe da stolti, così come da stolti è però la parallela e contraria esaltazione di uno strumento che evidenzia giorno dopo giorno i raggiunti limiti delle proprie potenzialità: grli strumenti vanno utilizzati per quello che sono, per quello che valgono e per quello che consentono di fare. Da stolti è soprattutto utilizzare uno strumento senza averne pieno controllo e senza avere l’impulso di vederlo migliorato. Non solo: iniziative come quelle di Eni in tema di second screen sono esempi fulgidi di quanto lo strumento possa esprimere valore quando utilizzato con progettualità consapevole ed esperta. Ma sono queste eccezioni che confermano una regola consolidata e diffusa, fari in una moltitudine di messaggi che viaggiano nel vuoto.
Franz Russo ci ha provato: «riaprire il discorso delle API», «puntare sui video», «migliorare e potenziare le Liste». Consigli utili e preziosi per un network in cerca di identità, che potrebbe almeno far chiarezza tra i propri strumenti per consentire agli stessi di esprimersi al meglio prima di ambire a nuove ed ulteriori estensioni. #SaveTwitter entra così tra i trend del giorno tra scherzi e riflessioni, ma anche in questo caso il dibattito non è fatto di sinergie, ma di semplice accostamento di tanti pensieri sparsi da 140 caratteri. Basta un trend per legare i tweet fino a formare un pensiero? Evidentemente no, ed anche #SaveTwitter sfumerà come vapore senza lasciar traccia.
Una critica razionale di Twitter
Semplicemente, è venuto il momento di pretendere la verità su Twitter: non la si può pretendere da chi utilizza Twitter come puro canale di marketing, poiché tende naturalmente a sovrastimare l’impatto delle proprie azioni sul network; non la si può pretendere da giocatori di calcio, starlette e politici, poiché Twitter è il loro canale semplificato per messaggi spesso unilaterali e non certo improntati all’instaurazione di un dialogo (della serie: io parlo, voi ascoltatemi, possibilmente retwittatemi e non sarebbe male se tutto ciò finisse in tv o sui giornali); non la si può pretendere nemmeno dagli influencer, i quali non possono che negare le debolezze del canale poiché con la caduta dello stesso cadrebbe anche la posizione di forza (tutta da pesare, ben s’intenda) acquisitaK non la si può pretendere infine da chi non prova reale affezione per il canale, poiché lo sfrutta sporadicamente e senza logica comunitaria alcuna. La deve invece pretendere chi vorrebbe un’intelligenza collettiva che non sia un compromesso al ribasso, chi vede nel sistema un’occasione perduta, chi dimentica l’hype per guardare ai numeri e sperare che le difficoltà non portino un giorno a ridimensionare pesantemente l’intero apparato.
Se non si identificano i problemi, risolverli sarà impresa impossibile. Ma lo storytelling tecno-entusiasta che circonda i cinguettii è spesso stato più folto e denso del valore dei cinguettii stessi, creando così un’aura irrazionale attorno all’intero network. A farsi necessaria è una critica razionale di Twitter, una visione consapevole dello stesso e un qualche meccanismo che ne misuri il valore al netto del gran bailamme che lo circonda. Del resto tanti uccellini assieme possono fare un gran baccano, ma non sono in grado di sollevare alcunché.
La cosa certa è che a questo punto Twitter si trovi di fronte a un bivio che sa tanto di fine dell’adolescenza: diventare o non diventare grandi? A un certo punto, in un modo o nell’altro, occorre decidersi.
Jack Dorsey, per definizione ora tocca a te. Occorre decidersi.