Il livello di scontro tra la grande azienda simbolo della Silicon Valley e lo stato americano arriverà fino alla Corte Suprema. Il terremoto giuridico che scatenerà forse cambierà per sempre il primo emendamento e una serie di concetti collegati alla libertà di espressione e alla riservatezza delle libertà personali. Apple contro FBI è già un legal drama in quella terra di cinema, ma anche di tecnologia, e soprattutto di storiche battaglie per i diritti. Ormai non si tratta più di sbloccare un iPhone, c’è molto altro, come ha ribadito Tim Cook che in una lunga intervista alla Abc ci è andato pesante e ha paragonato la richiesta del giudice federale a un cancro.
La questione tecnica sollevata dalla Apple dopo la richiesta di sbloccare l’iPhone 5c di Syed Farook, uno degli attentatori di San Bernardino (morto nello scontro a fuoco con le forze dell’ordine) è ormai nota. La protesta di Apple ha convinto tutte le aziende colleghe così come gli esperti di sicurezza informatica: scrivere da zero un firmware (cioè una variante completa del sistema operativo) per superare il blocco imposto dopo una serie di tentativi di ingresso senza password – peraltro maldestri, visto che l’FBI sembra abbia resettato l’iCloud condannandosi da sola a perdere quei dati – significa esporsi come mai accaduto alla possibilità che questa tecnica possa essere copiata, riutilizzata per scopi meno edificanti, rubata, o diventare un precedente legale che avrebbe effetti incalcolabili, in patria come in tutto il resto del mondo.
I favorevoli a questa soluzione insistono nell’evidenziare la parte della richiesta del tribunale dove si specifica che la Apple può arrivare al risultato come meglio crede e che non è necessario che qualcun altro scopra come entrare in quello smartphone. Insomma, sarebbe un unicum. A costoro sfugge però un principio fondamentale della sicurezza: la concezione stessa di una backdoor del genere, in grado di bucare centinaia di milioni di dispositivi della mela morsicata, abbassa il livello di sicurezza. Anzi, lo nega. L’eventuale riservatezza non c’entra nulla, è un concetto troppo debole rispetto alla oggettiva forza di una crittografia robusta e neutrale.
Strong encryption means unbreakable encryption. Any weakness will be exploited by hackers, criminals, foreign gov https://t.co/InrAm6KA7j
— Carola Frediani (@carolafrediani) February 25, 2016
Tim Cook: è libertà di espressione
Le parole del CEO di Apple ai giornalisti si sono fatte di giorno in giorno sempre più filosofiche e meno contestuali. Anche nell’intervista con David Muir, Cook non ha solo parlato del pericolo insito in questa tecnica e di come peraltro i nuovi iPhone saranno costruiti con una crittografia di nuova generazione, ma ha discusso molto della libertà di espressione. Non è un caso: basta leggere la mozione (pdf) con la quale il prossimo 22 marzo Cupertino si opporrà alla richiesta del tribunale. Gli avvocati di Cook hanno lavorato in modo molto originale, tipicamente progressista (sono gli stessi legali delle cause che hanno portato al matrimonio gay negli Usa) citando il primo emendamento della costituzione americana. Apple intende dare corpo alla dichiarazione di intenti del suo amministratore:
Questo non è un caso su un iPhone. Questo è un dibattito sul futuro. Può un governo costringerci a scrivere un software che noi crediamo provocherebbe delle vulnerabilità?
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Secondo gli avvocati che si appellano all’ordine del tribunale, si tratta di una variante particolare del più generale principio della libertà di espressione. Anche scrivere codice è un atto di pensiero creativo, come scrivere un articolo o un romanzo. Se passasse l’idea che per qualunque ragione legata alla sicurezza nazionale le autorità potessero chiedere a uno scrittore oppure a un giornalista di mentire o di usare la loro influenza per catturare un latitante o uccidere un criminale si arriverebbe ad acclarate violazioni della libertà di pensiero.
Secondo Apple, l’FBI non può chiedere un onere del genere all’azienda, che per soddisfare il governo dovrebbe isolare un team di una decina di ingegneri per almeno un mese: una sorta di piccolo dipartimento interno di auto-hacking al servizio del governo. Un incubo degno dei regimi militari, da firewall cinese o peggio, ma soprattutto perforabile. Quanto è credibile infatti il paese del datagate, dello spionaggio a tutto e su tutti, dove il presidente Obama deve chiedere scusa ad ogni release di Wikileaks a qualche capo di Stato (compreso Berlusconi) e si arrangia mediocremente promettendo il riconoscimento del danno ai cittadini dei paesi alleati? Come si può pretendere che resti chiuso dentro un server o nell’abilità intellettuale di qualche ingegnere un codice capace di spostare gli equilibri finanziari di un mercato da centinaia di miliardi di dollari e che potrebbe consentire a decine di intelligence di perforare un iPhone usandolo come una perfetta macchina intercettante? Come scacciare le api dal miele.
BREAKING: Apple asks judge to vacate order on locked phone; says FBI is seeking "dangerous power" through courts.
— The Associated Press (@AP) February 25, 2016
Leggi adeguate
Ecco perché molti pensano che l’obiezione alla corte distrettuale della California centrale, contrastata ieri con la richiesta di annullamento a un altro giudice, considerate anche le più che probabili soluzioni tecnologiche a cui Apple sta già lavorando per rendere di fatto inutili in futuro richieste dello stesso tenore, non è più il cuore di questo incredibile e interessante scontro ideologico tra Silicon Valley e Washington. La lunga battaglia legale darà forma a nuovi confini tra privacy e sicurezza, tra libertà di espressione e doveri civici. E dagli Usa questo informerà anche gli altri paesi occidentali, Italia compresa. La sensazione è che la stessa FBI ne sia consapevole e che con la sua richiesta abbia provato a forzare, sfruttando l’emotività della lotta al terrorismo, rendendo pubblica una richiesta che è solo l’ultima di altre invece rimaste sotto silenzio.
L’intenzione dell’autorità era quella di indurre imbarazzo nell’azienda, lasciando che l’opinione pubblica l’accusasse di non interessarsi del contrasto al terrorismo e delle vittime della violenza. Quella di Apple, alzando moltissimo il livello del dibattito, è invece uscire dal fango e produrre un caso che faccia giurisprudenza. Così anche da congelare per qualche tempo l’eventuale cambio di atteggiamento alla Casa Bianca e al Congresso, fin qui bloccati, dopo le elezioni di novembre. È politica e diritto, insomma. E come sempre l’America si guadagna gli occhi del mondo.