Era il 30 aprile 1986. Gli italiani guardavano in alto per paura della nuvola atomica di Chernobyl e in un sorprendente, vertiginoso cortocircuito della Storia, in un centro di calcolo di Pisa, al Cnr, si stabiliva un contatto con Arpanet, la rete pensata per i ricercatori scientifici del mondo che poi tutti avrebbero chiamato Internet. Ciò che era stato pensato durante la guerra fredda per una eventuale crisi atomica, iniziava la sua graduale rivoluzione, prima negli ambienti di studio, che solo in seguito negli anni 90 con l’invenzione del Web si sarebbe aperta alla massa. Quella radiottività fu come il colpo di coda di una minaccia mancata per poco, una porta scorrevole che negli stessi giorni vide quanto di meglio è dell’uomo, la sua intelligenza e apertura al mondo, usare l’idea di Internet per comunicare in un modo che non aveva precedenti. Oggi si celebra, culturalmente e politicamente, il trentennale di quella data.
In queste ore il presidente del Consiglio Matteo Renzi è al CNR di Pisa per l’inizio delle celebrazioni dell’Internet Day. Una intera giornata che ha raccolto più di mille eventi, soprattutto nelle scuole e grazie alle scuole. Il sito ufficiale, creato appositamente da Riccardo Luna, gran cerimoniere di questo Internet Day, ha aggregato in una mappa tutto quanto organizzato localmente, mentre con la Rai ha prodotto un documentario, insieme alla regista Alice Tommasini, intitolato “Login: il giorno in cui l’Italia scoprì Internet”, già proiettato in anteprima qualche giorno fa al Tempio di Adriano (dove peraltro nacque anche anche l’associazione Digital Champions) e che verrà proposto agli studenti italiani nella versione più lunga. Un esempio originale, forse inedito, di una possibile storiografia della Rete.
Celebrazione o propaganda?
L’Italia è un paese strano: molte nazioni si vanterebbero di essere state fra le primissime a connettersi a Internet grazie alla qualità dei propri ingegneri (che negli anni 70 e 80 erano tra i migliori al mondo, senza discussione), invece anche su questa giornata celebrativa si contano più distinguo ed ironie che una sincera adesione. In effetti ci sarebbe molto da dire a proposito del rischio di confondere la celebrazione con la propaganda, ma in fondo è la stessa differenza, nelle piccole cose che piacciono tanto al tifo pro e contro, che a livello filosofico esiste tra il fatto e il modo di trattarlo e raccontarlo. Tra la storia, appunto, e la storiografia.
Riccardo Luna, nel breve intervento ieri durante il #matteorisponde, ha così spiegato il senso di questa iniziativa:
Nessuno conosce i pionieri della Rete in Italia, quando avvenne quel collegamento fecero un semplice comunicato stampa che nessun giornale riprese. All’epoca dire “mi sono collegato a Internet” non era una notizia, tutti comprensibilmente avrebbero chiesto di cosa si trattava. Eppure fummo il quarto paese al mondo, mentre oggi siamo il quart’ultimo d’Europa per il suo utilizzo. Evidentemente abbiamo perso terreno, eppure non mi ricordo una partecipazione così larga su un tema così specifico come questo Internet Day.
Qui è nata Internet in Italia. Targa con i pionieri #InternetDay pic.twitter.com/hTDmtNwPGH
— Riccardo Luna (@RiccardoLuna) April 29, 2016
Al netto del peso e dello stile politico del progetto, bisogna ammettere che almeno si prova a fare un po’ di storia di Internet. Che, attenzione, non è il web, cioè la rete che davvero è conosciuta dai più. A pensarci bene, è quasi assurdo che non diventi una disciplina di studio nei gradi dell’obbligo, se non altro una infarinatura. Questo permetterebbe di capire meglio una delle confusioni peggiori che si possono fare su questo tema: Internet è una rete basata su un protocollo, il Tcp/Ip, l’HTTP è il protocollo del Web che serve i contenuti, cioè consente l’infrastruttura per tutti. Da un punto di vista concettuale, oggi si celebra quella “Rete per pochi” che i fautori mai avrebbero immaginato sarebbe cambiata così tanto, soltanto un lustro dopo, grazie a Tim Berners-Lee.
Da allora ad oggi, si può dire che tutta la battaglia e l’evoluzione della Rete è incanalata e trascinata da questa discrepanza originaria, un digital divide nativo più volte affrontato e cambiato dalle fortissime pressioni imposte dal mercato cresciuto nella Rete. Internet e il Web non sono assolutamente più quelli di vent’anni o trent’anni fa, né tecnicamente, né economicamente, né filosoficamente. La generazione dei padri di Internet e anche del Web ha conosciuto l’interoperabilità assoluta, un luogo dove chiunque poteva prendere software da qualunque altro luogo, manipolarlo e installarlo facendolo funzionare su qualunque computer. Così cercavano di fare.
Oggi la rete è composta di snodi, di cortili recintati, ha vinto la reintermediazione dei software di proprietà. Sul mobile questa dinamica si è ulteriormente estesa perché privilegia i gatekeeper che possono decidere cosa si può usare o meno, mentre i server sono servizi di privati che forniscono l’habitat delle proprie piattaforme, dunque si aprono battaglie nei trattati internazionali per stabilire dove questi dovrebbero avere sede. I dati sono il nuovo petrolio e chi li controlla non ha bisogno di altro. Gli algoritmi a loro volta sono la risposta all’impossibilità di gestire l’enorme quantità di dati che vengono prodotti ogni istante in Rete, tuttavia si sta vivendo un passaggio nel quale solo una ristretta minoranza dispone della tecnica di costruzione degli algoritmi e una minoranza appena più grande è consapevole di questo ruolo e del suo impatto etico.
Insomma, oggi è una giornata tecnicamente interessante, ma la storia poi ci ha portati altrove. E va raccontata bene anche quella, senza facili entusiasmi.