L’uscita del Regno Unito non ha cambiato le intenzioni di Jean-Claude Juncker a proposito del mandato alla Commissione Europea da lui presieduta di lavorare con gli Usa al trattato di libero scambio, il TTIP. Come aveva annunciato lo scorso 30 maggio, alla fine del consiglio europeo oggi ha confermato le trattative e ha detto che la Brexit non cambia i programmi. Questo in effetti è vero, certamente però non mancheranno ulteriori complicanze.
La Commissione Europea è consapevole dello scetticismo di molti stati membri a proposito della buona riuscita di questa trattativa, ma Juncker ha spiegato di aver chiesto a tutti i leader europei riuniti se Bruxelles dovrebbe continuare a portare avanti le trattative con Washington e tutti i primi ministri (dunque anche quello italiano, Matteo Renzi), hanno detto di continuare. La logica è che il mandato dei paesi alla Commissione ha diverse clausole di salvaguardia e prevede due giri di approvazione: l’Europarlamento e il Consiglio stesso (in questo caso, tra l’altro, all’unanimità), perciò interrompere ora le trattative sarebbe dichiararsi sconfitti senza neppure finire la partita, come gettare la spugna.
Il livello di difficoltà tuttavia si fa arduo, quasi assurdo: il presidente francese François Hollande ha detto chiaramente che il suo paese respingerebbe il TTIP all’attuale livello di esito, mentre il ministro dell’economia e del commercio tedesco Sigmar Gabriel è ancora stato più esplicito dicendo di “non voler far parte di un cattivo affare”. Ora si è messa di mezzo Londra, da sempre una spalla sicura su cui appoggiarsi quando si tratta di accordi economici con Washington.
Il rapporto privilegiato tra inglesi e americani è sempre stato una sorta di corrispettivo speculare del rapporto con gli europei: in entrambi in casi, la city ha tenuto un piede dentro e uno fuori, con la differenza che nel caso degli americani era piacevole, mentre con gli europei lo facevano quasi per costrizione e con malcelato fastidio (sfociato in un referendum sul quale ci sarà da discutere per molto tempo).
TTIP dopo la Brexit: gli scenari
Juncker ha una doppia sfida da vincere. La prima è convincere gli stati membri che il CETA – un trattato col Canada molto simile al TTIP e identico negli scopi – andrà approvato come trattato europeo, senza quindi un ulteriore passaggio nei parlamenti nazionali. Se ci riuscisse, sarebbero le prove generali per eventualmente far passare, in base al precedente, il TTIP tra qualche anno quando sarà pronto (forse). Juncker ha le sue ragioni,teme che l’Europa ricominci a spaccarsi nazione per nazione su piccoli particolari egoistici (Bulgaria e Romania, ad esempio, pretendono di inserire un accordo speciale sui visti in Canada per i loro cittadini), tuttavia qualcosa dovrà cedere se persino il neo ministro Calenda ha sottolineato come l’Italia sia disposta ad accettare che il CETA sia un accordo misto solo a patto che venga approvato all’unanimità, altrimenti meglio passare dai singoli parlamenti.
Da come andrà l’accordo canadese si capirà di più di quello con gli states. Al momento gli scenari possibili sono due: i 27 paesi approvano tramite parlamento e consiglio il TTIP e poi, sulla falsariga di quest’ultimo, aprono una trattativa di libero scambio con il Regno Unito, ormai paese extra-UE; in alternativa, il Regno Unito lavorerà da solo ad accordi con gli USA e l’Europa secondo i propri interessi, partendo da zero. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, col voto contrario delle destre antieuropeiste alla mozione per l’uscita immediata del Regno Unito dall’Unione Europea si è capito che chi ha sostenuto il “leave” in realtà vorrebbe restare il più possibile nel mercato unico europeo, cosa però che Juncker (e Merkel) considerano persino offensiva.
Il TTIP farà a meno dei britannici. Ora bisogna vedere se gli altri continenti impegnati in grandi trattati di libero scambio (Brasile, Cina, Russia), riterranno questa una nuova dimostrazione di debolezza del vecchio continente.