Qualora ci si trovasse negli Stati Uniti, non sarà il caso di condividere la password di Netflix, Hulu, Spotify e di tutti gli altri servizi di streaming, sia video che audio, con amici e parenti. Una delle pratiche più diffuse nell’era attuale, quella di condividere gli abbonamenti con più persone per ridurne il prezzo mensile, è infatti divenuta un reato federale. Il tutto a causa di una sentenza emessa nella giornata di ieri, per un caso che nulla ha a che vedere con il piacere di ascoltare il proprio album preferito o ammirare una serie TV di culto.
Il tutto riguarda la condanna di David Nosal, un ex impiegato di un’azienda specializzata in ricerche, confermata dal Ninth Circuit Court of Appeals degli Stati Uniti. Secondo quanto emerge dalla stampa a stelle e strisce, l’uomo avrebbe utilizzato la password condivisa da un collega per accedere al database dell’azienda, quindi esprimendo un uso “non autorizzato” delle credenziali di login rispetto a quanto previsto dal Computer Fraud and Abuse Act. Secondo le corti, non vi sarebbe quindi nessuna differenza tra l’accesso tramite una password condivisa e una sottratta, poiché rappresenterebbero in entrambi i casi delle pratiche di hacking proibite dalla legge.
Dalla pubblicazione della sentenza, molti esperti a stelle e strisce hanno espresso seria preoccupazione per le conseguenze che la decisione potrebbe causare sulle attività di consumo online quotidiane. Un “nightmare scenario”, un vero e proprio incubo per i comuni consumatori, i quali sono soliti a condividere con amici e parenti le credenziali di servizi come Netflix e similari per dividere la spesa mensile. E sebbene questa pratica non rappresenti né un accesso illecito, poiché prevede il consenso del proprietario principale dell’account, né un tentativo di hacking, la sentenza non sembra includere alcuna discriminazione di comportamento. Una conseguenza riconosciuta da uno dei giudici di minoranza nella corte, Stephen Reinhardt, il quale ha sottolineato come la decisione:
rischi di criminalizzare tutta la varietà di innocue condotte quotidiane che coinvolgono cittadini ordinari.
Sul fronte opposto, il giudice Margaret McKeown ha spiegato come la sentenza non riguardi lo sharing di password in senso stretto, ma il fatto che il condannato ne abbia fatto un uso non esplicitamente autorizzato dall’azienda. Una spiegazione, così come Reinhardt aggiunge, tutt’altro che utile per dipanare le nuvole sullo streaming: anche nel caso dell’abbonamento a un portale musicale, ad esempio, l’utente non ha il permesso ufficiale da parte dell’azienda che offre il servizio, ma riceve però l’autorizzazione dal proprietario dell’account.
L’Electronic Frontier Foundation (EFF), riporta Kim Komando, sostiene che l’interpretazione della corte sia un’estensione impropria dagli intenti del Computer Fraud and Abuse Act. Inoltre, la sentenza porterebbe allo stesso livello comuni e innocenti cittadini a quello dei più agguerriti cyber-criminali, determinando un pericoloso precedente.