Da alcuni giorni è disponibile online il Reuters Institute Digital News Report 2016: si tratta di una approfondita analisi del modo in cui si fruisce delle notizie al giorno d’oggi e di come i cambiamenti in corso siano destinati a cambiare una volta per tutte l’ecosistema informativo a cui accedono utenti e cittadini. Si tratta di un report estremamente ampio e complesso, che lascia emergere però evidenze destinate ad avere un influsso pesantissimo: se cambia il modo di accedere alle informazioni, infatti, cambiano il possesso e la fruizione delle nozioni, determinando nuovi percorsi nella circolazione del sapere e nella distribuzione dello stesso.
All’interno del Reuters Institute Digital News Report 2016 c’è qualcosa di estremamente sfuggente ed estremamente importante al tempo stesso: fotografia di un mondo che sta cambiando, ma che cambia tanto radicalmente e tanto in fretta che diventa difficile scorgerne gli scenari futuri, il report racconta in numeri una rivoluzione che sta prendendo forma sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, click dopo clicl. Gli stakeholder sembrano però procedere quasi alla cieca, basandosi sui dati che vengono via via raccolti, ma quasi impossibilitati a fare previsioni, e quindi investimenti, anche solo di medio periodo. E le conseguenze, soprattutto in Italia, potrebbero essere pesantissime.
Reuters Institute Digital News Report 2016
Questi i punti fondamentali che il team responsabile della ricerca ha voluto porre in evidenza a partire dai risultati dell’indagine:
- il 51% del campione usa i social media come fonte di accesso alle notizie e il 12% li utilizza come fonte principale; tra questi ultimi Facebook la fa da padrona, calamitando gran parte delle condivisioni;
- giovani e donne sono le categorie che con maggior fiducia si affidano ai social network per l’accesso all’informazione: nella fascia tra i 18 e i 24 anni, soprattutto, i social media sono più utilizzati della tv, sostituendone di fatto il ruolo;
- la crescita dell’accesso da social network e aggregatori sta facendo venir meno l’importanza del brand: l’utente accede alla notizia in base alla rilevanza scelta dagli algoritmi che propongono le notizie del giorno e la fiducia nella fonte specifica sembra ormai passare in secondo piano;
- la televisione rimane saldamente ancorata alle generazioni più anziane: è ancora la fonte principale, ma il suo declino è continuo e apparentemente inesorabile;
- lo smartphone si sta imponendo come lo strumento prediletto per l’accesso alle notizie. Ciò determina inevitabili compromessi, ma fa parte della natura del device: minor approfondimento, minor tasso di attenzione, maggior “zapping” tra le notizie e le fonti delle stesse;
- la predisposizione alla news a pagamento è bassa (e paradossalmente la situazione è differente solo in Italia e pochi altri paesi): l’alta competitività del mercato non genera iniziative tali da esprimere vero valore nelle offerte a pagamento e questo mette in difficoltà un settore editoriale sempre più schiavo della quantità delle risorse disponibili e della scarsità di domanda da parte dell’utenza;
- sebbene la produzione video aumenti in virtù di modelli di business che ne incoraggiano l’adozione, l’utenza è sempre ancorata al testo come forma principe per l’accesso alla notizia: il 78% degli intervistati preferisce ancora questa formula, sia perché più conveniente in termini di tempo impegnato, sia perché le pubblicità pre-roll rappresentano un ostacolo psicologico importante di fronte alla scelta del video;
- la possibilità di personalizzare gli aggregatori e l’aumentato accesso alle news tramite i social network non fa altro che confermare i pericoli della bubble filter: si accede alle notizie sulla base di scelte conformate e preordinate, il che esclude notizie differenti, incontri casuali con le informazioni e analisi forzata di opinioni contrarie. Si tende così ad impoverire la dieta informativa quotidiana, a detrimento della capacità di informazione e della qualità della conoscenza generale.
Tra i social network, il più utilizzato per l’accesso alle informazioni è Facebook, seguito a distanza da YouTube, con Twitter appena in terza posizione: il network da 140 caratteri è usato per l’informazione soltanto dal 10% degli utenti, ma è la stessa Reuters a riconoscere come si tratti di una comunità confinata e ben identificabile in giornalisti, politici e altri stakeholder (dunque non un fenomeno di massa, ma porzione selezionata di protagonisti e influencer).
Conseguenze del cambiamento
Non si può non sottolineare l’incredibile differenza che fa, sotto innumerevoli punti di vista, informarsi principalmente tramite tv e giornali (popolazione sopra i 40 anni) o informarsi principalmente tramite social e aggregatori (popolazione sotto i 30 anni).
La bubble filter è il primo problema messo in rilievo dalla stessa Reuters, qualcosa che rallenta la maturazione delle opinioni perché le isola in ambiti privati che tendono a non contaminarsi l’uno con l’altro: siamo più connessi di un tempo, ma è come se non lo fossimo. E paradossalmente la chiacchiera da bar viene ad essere più formativa che non una chat su Facebook, a patto che il bar sia in grado di attrarre persone pronte a mettere sul tavolo un’opinione ben formata.
C’è poi il tema della dittatura degli algoritmi. Laddove la scelta delle notizie era un tempo lasciata all’utente che sfogliava i siti Web o agli editori che sfornavano telegiornali e quotidiani, oggi il canovaccio è scelto da calcoli computazionali (spesso personalizzati) che scelgono le notizie non tanto in base alla loro importanza, quanto alla loro gradevolezza (declinata in capacità di coinvolgimento e interazione). Non conta erogare notizie di livello, firmando con il brand tale scelta e il tono con cui le stesse vengono formate e offerte: la scelta è in mano all’algoritmo, il quale si nutre del lavoro altrui per sfoderare un palinsesto nuovo, ispirato più all’adrenalina che alla qualità dell’offerta.
E se l’offerta è ispirata alla necessità di coinvolgere e promuovere l’interazione, il tutto all’interno di un ecosistema di accesso alle informazioni fatto più di passaparola che non di fonti ufficiali (lo stesso algoritmo di Facebook tende ora a favorire più le condivisioni personali che non i brand), allora ecco servito il sistema attuale: bufale e notizie non verificate vanno a sostituirsi a quella che è (o dovrebbe essere) la cura editoriale di quanti producono l’informazione sul campo per metterla in circolo. L’utilità di social e aggregatori è innegabile, ma al tempo stesso appare lapalissiano il fatto che i maggiori attori dell’ecosistema informativo siano di fatto deresponsabilizzati rispetto alla salubrità dell’ecosistema stesso. Questo non può dare buoni risultati. Né può durare. Né dovrebbe.
Interessante sembra essere anche la tipologia di device utilizzata per l’accesso online alle notizie: i più giovani preferiscono infatti di gran lunga lo smartphone, mentre al di sopra dei 45 anni le opzioni sono fortemente sbilanciate verso pc e tablet. Questo implica una forte differenza nelle modalità di accesso e lettura, generando due sistemi che si autoalimentano: più basato sull’approfondimento il primo, più orientato sulla bulimia informativa, spesso con minor possibilità e capacità di approfondimento, la seconda. Non solo: l’uso dello smartphone promuove maggiormente l’accesso alle notizie tramite social e aggregatori, spostando il peso degli algoritmi soprattutto sulle fasce più giovani: la scelta del device diventa fondamentale quindi nella formulazione della dieta informativa, aspetto che i genitori dovrebbero probabilmente avere ben chiaro in mente prima di giudicare la formazione culturale dei propri figli.
La situazione in Italia
Su una popolazione di 61 milioni di persone, appena il 62% degli italiani ha accesso a Internet. I media tradizionali possono dunque ancora contare su un 38% di utenti sui quali hanno una sorta di monopolio poiché l’assenza del Web nella loro dieta mediatica rappresenta una chiusura definitiva a quelli che sono i veicoli di informazione maggiormente concorrenziali rispetto a giornali e tv.
Gli utenti online sono particolarmente predisposti al pagamento delle notizie, affidandovisi come raramente succede in altri paesi (l’Italia risulta essere dunque una delle nazioni con maggior predisposizione a questo approccio all’informazione). I motivi possono essere vari: una particolare sensibilizzazione dovuta alle polemiche degli anni passati, unitamente ad una scarsa fiducia nel mondo dell’informazione (solo il 23% degli utenti confida piena fiducia in un ecosistema pulito da influenze politiche o economiche), contemplando un’offerta dal prezzo medio relativamente basso rispetto ad altri paesi europei, hanno portato il 16% degli utenti ad optare per una qualche formula a pagamento.
L’apparente sfiducia nei confronti dell’informazione non sembra tuttavia intaccare il market share dei maggiori brand dell’editoria nazionale, i quali hanno traslato la propria attività dall’offline all’online senza particolari scossoni: La Repubblica (33%), Il Corriere della Sera (21%), il Sole 24 Ore (16%) e La Stampa (16%) si dividono gran parte dell’offerta informativa online, lasciando al momento poco spazio a realtà “digital born” quali Huffington Post (12%) o Il Post (5%). Ma del resto la sfiducia non sembra pendere sul capo dei maggiori brand, quanto sul nome dei principali giornalisti: la faziosità è vista come questione personale, mentre il brand rimane tutto sommato una scelta di campo. Su questo orizzonte potrebbe incidere l’aumento della penetrazione del Web, degli smartphone e del diffondersi dei canali social nella dieta informativa quotidiana: maggiore è lo spostamento su digitale e mobile, infatti, e minore potrebbe essere l’appeal dei grandi nomi dell’editoria tradizionale. Aprendo così nuovi spazi di conquista basati più sulla conoscenza degli algoritmi che non sui paradigmi secolari del giornalismo.
Che il futuro possa riservare gravi scossoni soprattutto all’Italia è qualcosa di evidente:
Mentre gran parte delle nazioni veda una penetrazione di Internet al di sopra dell’80%, Italia, Brasile e Turchia hanno un livello di accesso più basso.
I dati generazionali di accesso all’informazione, assieme a quelli statistici di composizione della dieta mediatica collettiva, dipingono un quadro della situazione vicino ad una sorta di tracollo ineluttabile: la “generazione tv” andrà naturalmente ad affievolirsi, la “generazione smartphone” verrà logicamente a galla poco alla volta, l’avvento della banda larga darà un colpo di frusta molto più importante rispetto ad altri paesi europei (per via del ritardo accumulato) e tutto questo andrà a modificare, anche pesantemente, gli equilibri generali attuali dell’informazione nel nostro paese. Con forti conseguenze per brand, aziende, politica ed economia.
Quello che segue è uno schema indicante la prima fonte di accesso alle news tra la popolazione lungo la giornata, lo spunto sul quale si apprendono le notizie per la prima volta dopo il risveglio:
Il 6% degli italiani legge in prima mattinata il giornale, il 43% predilige anzitutto la tv, il 16% opta per il computer ed il 15% si affida al proprio smartphone. Il tablet sembra essersi ritagliato una posizione estremamente risicata e probabilmente in calo ulteriore dopo il boom dei primi iPad. La radio resiste con un 13% che accompagna probabilmente i professionisti durante i propri spostamenti verso l’ufficio. Tale fotografia potrebbe cambiare parecchio soprattutto in quel 43% legato alla televisione, probabilmente in favore dello smartphone: sarà il segno di una inversione di tendenza storica, giro di boa in una mutazione incontrovertibile di quel che significa fare informazione in Italia.