Dopo il grande successo a Londra, Uber si appresta a portare in altri dieci paesi europei, Italia compresa, il servizio di consegna pasti a domicilio. Uber Eats potrebbe fare nel food delivery tramite app quello che ha fatto con il trasporto privato di persone? Molto probabilmente sì, anzi più facilmente perché dal punto di vista delle norme ci sono meno ostacoli.
Quasi due anni fa l’allora manager di Uber Italia, Benedetta Arese Lucini, in occasione di un convegno ad H-Farm sul crodwsourcing, ne aveva già parlato come di una rivoluzione: Uber Eats stava esplodendo negli Stati Uniti, i primi progetti europei vedevano in prima linea Barcellona, poi si è passati a Londra (la Spagna nel frattempo ha completamente impedito l’attività alla società californiana) dove in pochi mesi ha raccolto centomila clienti. Il concetto di questo servizio è semplice: consentire a chi scarica l’applicazione di ordinare dei piatti pronti in pochi minuti.
Servizio diverso dalla spesa consegnata in auto – altra frontiera a cui è interessata Uber come molte altre aziende – questa è una soluzione di on-demand semplificato, veloce, dove Uber mette in rete delle cucine e le rende disponibili sulla rete delle proprie vetture in strada o di fattorini appositamente organizzati anche su mezzi più leggeri. Dunque lo status giuridico nazionale – in Italia è attivo solo Uber Black, cioè conducenti professionali – non sembra importante rispetto a questo servizio completamente nuovo.
Il successo di mercato negli states e a Londra sembra aver convinto la società a rompere gli indugi e a provarci anche a Vienna, Bruxelles, Copenhagen, Berlino e Monaco di Baviera, Roma e Milano, Amsterdam, Madrid e Barcellona, Stoccolma e Zurigo. Ovviamente ci sono due temi: l’effetto sul delivery online, già sottoposto a parecchie pressioni in Italia; ma soprattutto la compatibilità con le norme nazionali. La commissione europea sta tentando di integrare queste nuove economie in quelle prevalenti dal punto di vista giuridico, ma si è ancora piuttosto lontani da una soluzione, che pure andrebbe trovata.
Tecnologicamente, Uber Eats è semplice come l’applicazione madre, la differenza è nel necessario e grosso lavoro di cooptazione delle cucine dei ristoranti, che dovrebbero mettersi a disposizione per preparare e consegnare dei pasti ordinati tramite questa applicazione esterna. Un feedback difficile da calcolare, che andrebbe a inserirsi in un settore in tremenda evoluzione – basti pensare a Deliveroo, guidata in Italia dall’ex general manager di Zooppa Matteo Sarzana, oppure Just Eat e molte altre realtà nazionali o multinazionali – che prevede investimenti sia sul territorio nel cercare fornitori e clienti che nella creazione di una logistica che funzioni al meglio.
We've got your Thai food cravings covered this weekend. #UberEATS pic.twitter.com/5hDBFjBCeg
— Uber Eats (@UberEats) August 20, 2016
Tutto sta a vedere quanto Uber può agire senza tentennamenti legali in questi paesi del vecchio continente, ma in effetti non si vede perché non potrebbe: coi tassisti si tratta di pubblico servizio, in questo caso no. Determinanti anche le tariffe che riuscirà ad applicare. Al momento in media l’offerta delle applicazioni di food delivery è un sovrappiù rispetto al piatto scelto di due-tre euro e la consegna avviene entro trenta minuti, in una città come Milano. Uber evidentemente è convinta di poter essere concorrenziale. In ogni caso, l’unica cosa certa è che Uber Eats sbarcherà in Italia entro la fine dell’anno. Sarà interessante vedere anche quali ristoranti aderiranno alla rete.