Il web che ricatta, le leggi che non ci sono oppure sono limitate, la disumanità della Rete, gli orrori. Internet è un inferno. Come possiamo difenderci. Non possiamo difenderci. La Rete ha in mano una pistola cieca. Il web è libero di uccidere. La lettura delle prime pagine dei quotidiani è una indigestione di titoli da panic room che fa seguito alla quantità incalcolabile di commenti che già ieri avevano fatto traboccare i social media. Nell’ansia di allarmare l’opinione pubblica, di convincerla che siamo perseguitati da una entità malvagia (la Rete), si è sfociati in una mania di persecuzione.
Secondo uno stile tutto italiano (ammettiamolo), si è risposto a un trauma con una nevrosi collettiva, fatta pressoché di ignoranza, ipocrisia e purtroppo in qualche caso anche strumentalizzazione politica. Dunque, bisogna ribadirlo, anche se nel 2016 fa decisamente cascare le braccia: la Rete non esiste, non è un soggetto, è un iperluogo, cioè tutto ciò che noi riponiamo in essa. Il world wide web ha una struttura intrinsecamente neutrale, e va utilizzato partendo da questo principio, anzi difendendolo.
Se si tentasse di fare un collage delle peggiori frasi lette o ascoltate oggi, bisognerebbe cominciare col primo vizio che il giornalismo mainstream proprio non vuole togliersi: riferirsi alla Rete personificandola. Chi abbia cominciato a farlo non si sa (certamente ha avuto un ruolo anche Beppe Grillo sostenendo a più riprese in questi anni – ultimamente meno – “lo deciderà la Rete”), ma da qui sorge il primo messaggio che Webnews lancia a questo improvviso coagulo anti-web, molto sospetto come vedremo, che si è formato dopo la notizia del tragico suicidio di una donna campana protagonista di un cyber-harrassment collettivo come forse non si era mai visto prima in questo Paese e che l’ha distrutta psicologicamente.
Piantatela di incolpare genericamente la Rete. È chiedere troppo?
Già, “Rete” non significa nulla. Dunque anche metterla nel mirino. Ad avere tormentato quella povera ragazza è una combinazione tremenda di errori individuali, incultura, disprezzo e superficialità, e soltanto alla fine il grado tecnico di diffusione virale di un contenuto dove invece, senza dubbio, ha operato anche la spersonalizzazione. Se dunque è vero che il Web ha caratteristiche così uniche da meritare un’analisi specifica, finanche nell’ipotizzare delle norme (come peraltro si è già fatto) e ispirare delle buone pratiche, è altrettanto vero che le persone che hanno diffuso inizialmente quei video hanno nomi e cognomi, così come chi ha creato pagine parodia offensive e postato commenti terribili e stupidi. Ad essere crudele è l’umanità, non ciò che usa per esserlo.
Il web è speciale, vero, però sono le persone ad essere crudeli e pericolose.
Quando però certo giornalismo proprio non vuole saperne di mollare l’osso prova ad entrare nello specifico. E cita i social, le piattaforme. Presi da un coraggio che si era visto poco in occasione del passaggio di Mark Zuckerberg nel nostro Paese (in quel caso, la stampa fu tutta ben allineata e timidissima) è tutto un florilegio di accuse e denunce. Per fortuna nelle ultime ore sono intervenuti gli specialisti delle cose internettiane, sempre i soliti, che con pazienza infinita hanno spiegato alla pubblica opinione il diritto all’oblio, perché non va confuso con gli esiti di una diffamazione e per quale ragione è pericoloso immaginare di creare un grosso bottone “cancella” per qualunque contenuto senza che a deciderlo sia un tribunale.
Nelle ore precedenti invece si sono lette assurdità incredibili. Secondo un corsivista di un famoso quotidiano nazionale, Facebook “è nato per fare del male alle persone” citando pure il film “The social network”, confondendo il primo progetto di Zuck, il sito per i voti alle studentesse di Harvard, con il secondo che poi sarebbe diventato thefacebook e che non ha mai avuto alcun intento persecutorio come immaginato dalla fervida forzatura del giornalista. Secondo altri suoi colleghi, il social network non risponde alle richieste di cancellazione (falso) e l’oblio è un diritto negato nella maggior parte dei casi. Falso anche questo: le richieste sono ricevibili soltanto se rispettano i criteri segnalati dalla stessa Corte di giustizia europea insieme a Google e gli altri motori di ricerca mentre il Garante della privacy interviene per una seconda valutazione. Ha a che fare con la memoria storica e in gioco ci sono interessi individuali e collettivi che vanno bilanciati caso per caso. Come si può fare informazione in modo così superficiale senza pensare alle conseguenze? Non è il corrispettivo di ciò che si rimprovera alle persone quando si parla di alfabetizzazione informatica?
Chi giudica le persone che condividono senza pensare? Giornalisti che scrivono senza pensare.
Si dovrebbe parlare di digital literacy, di consapevolezza, della necessità urgente di portare alfabetizzazione nelle scuole, orientata però non all’uso tecnico degli strumenti (sono più bravi degli adulti), ma per aiutare i più giovani a concettualizzare le conseguenze personali, concrete, del loro uso in determinate circostanze, cioè a calare la tecnica che hanno a disposizione nell’educazione civica e affettiva già materia di lezioni nelle loro classi. Invece di cosa si parla? Della Rete cattiva. Ci si esercita nella solita tiritera del web descritto come “gogna”. Una stupidaggine due volte illetterata. Innanzitutto, nega una verità evidente a chi ragiona su questo fenomeno: siamo in sostanza noi ad esserci infilati questa gogna, secondo quella “mobilitazione totale” raccontata dal filosofo Maurizio Ferraris. Dunque è necessaria una riflessione più ampia del codice binario vittima-carnefice. Secondariamente, questa narrazione angosciante fa credere che siamo all’anno zero delle risorse legislative. Anche questo falsissimo. In Italia abbiamo un codice sulla privacy, una legge sullo stalking, una sulla diffamazione (certo, vanno applicate bene e comprese sia dagli avvocati che dalle procure, e non senpre accade, per non parlare della lentezza di applicazione nei rilievi penali). Manca forse una legge sul revenge porn, ma ovviamente trattandosi di una cosa intelligente non l’ha fatto ancora nessuno.
Chi ha detto che non ci sono le leggi? Abbiamo codice privacy, diffamazione, stalking. Manca il revenge porn.
Al contrario, di cosa si sta occupando il Parlamento? Del cyberbullismo. Un fenomeno legato alla psicologia evolutiva che la maggioranza di governo ha esteso a tutta la popolazione adulta, contribuendo alla confusione tra reati diversi, ambiti diversi, eccezioni diverse. Il testo, discusso anche oggi, è stato trasformato in una mostruosa legge sull’hate speech, di cui si avverte lontano un miglio l’intenzione di capitalizzare l’ondata emotiva, creata col supporto volenteroso dei mass media, per togliersi uno sfizio a cui la classe dirigente più retriva pensa da almeno un decennio: bloccare i troll, i contenuti aggressivi in Rete. E fa nulla se solo poche settimane fa abbiamo visto un ottimo esempio di pressione positiva con la chiusura della campagna sul fertility day: con la scusa della tragica morte di una donna, non vedevano l’ora di approvare una legge (non ci sono ancora riusciti, se ne riparla martedì) che potrebbe ingolfare l’Autorità garante di segnalazioni incoerenti con l’obiettivo di una legge sui minori – e quindi a loro discapito – accelerando le disposizioni di cancellazione dei contenuti senza il parere di un tribunale.
In Parlamento provano spudoratamente a capitalizzare l’ondata emotiva con una legge pensata male e scritta peggio che serve a loro e non alle vittime di bullismo.
Il brutto spettacolo è andato in scena, il rumore dei nemici non è mai stato tanto forte. La mentalità è sempre la stessa: la Rete come soggetto, le persone come vittime, la politica che prova a guadagnare credito portando discredito a Internet. Col paradosso intollerabile di vedere persone che conoscono a menadito le contraddizioni della Rete venire bollati come “tecnoentusiasti” da chi prima di ieri non aveva mostrato alcun interesse particolare e si era sempre piegato all’uso più banale di questi strumenti senza aver mai aperto una pagina di Morozov, o piuttosto prendendolo pure sottogamba.
Bertrand Russel raccomandava: “Non immaginatevi che la gente si interessi tanto a voi da nutrire un particolare desiderio di perseguitarvi”. Ci vogliono alcuni precisi errori e comportamenti per essere perseguitati in Rete, e nella vita in generale. Tutti gli altri non lo sono. Il Web non ha cambiato gli equilibri in modo tanto sensibile da giustificare questi allarmismi (pensate a tutti quelli che conoscete e fate un conto). Hanno fatto passare un’idea, banale, che alimenta una mania di persecuzione, utile ai media per vendicarsi di tutti gli introiti sottratti e alla politica per silenziare un po’ di disturbo al manovratore.
Un conto è la persecuzione, un altro è la mania di persecuzione. Utile a media e politica per consumare le loro vendette.