Ieri sera la Camera dei deputati ha approvato senza emendamenti con 242 voti favorevoli e 73 voti contrari la legge per il contrasto al cyberbullismo. La partita non è finita, perché il testo ora torna là dove si era trovata l’unanimità, in Senato, ma certamente ha lasciato in campo molte recriminazioni e la sgradevole sensazione, corroborata dai fatti, che si sia voluto a tutti i costi approvare un testo nonostante tutto.
Il punto in cui è più conveniente proseguire che tornare indietro. Quello di non ritorno. Non dovrebbe valere nei percorsi reversibili come quelli di una discussione tra persone, purtroppo però in politica spesso capita, ad esempio negli ultimi giorni di discussione attorno a una legge brutta, pensata male e scritta peggio, nata per affrontare un fenomeno della psicologia evolutiva che sta trovando sfogo e amplificazione nella Rete, ma che è diventata poco prima del traguardo una legge-simbolo, il tentativo della maggioranza parlamentare di intestarsi una generica battaglia contro l’hate speech sfruttando l’emotività dell’opinione pubblica. La mentalità è quella paternalista per cui si deve proteggere le persone da loro stesse, approfittandone anche per mettere a tacere il Web che è tanto antipatico. Bisognava portare a casa il risultato ad ogni costo ed è stato fatto. Con quali conseguenze, ora vedremo.
La Camera approva il testo per la prevenzione e il contrasto a bullismo e #cyberbullismo #OpenCamera pic.twitter.com/tIPgY4XcYi
— Camera dei deputati (@Montecitorio) September 20, 2016
Il lavoro dei parlamentari contrari
Com’è possibile che una legge sul cyberbullismo sia diventata uno strumento dov’è prevalente la cancellazione di contenuti dalla Rete nel più breve tempo possibile da parte di chiunque secondo alcune definizioni generali di aggressione e molestia? Tutto è sorto quando lo scorso 27 luglio alle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali sono stati portati dai relatori di maggioranza del PD alcuni emendamenti. Quei pochi deputati davvero in grado di capirci qualcosa erano per diverse ragioni altrove. Paolo Coppola e Stefano Quintarelli erano in quel periodo assegnati alla Commissione Affari Costituzionali per seguire il Codice della Amministrazione Digitale. I cinquestelle non coglievano in quel momento la portata dei cambiamenti (poi si sono impegnati moltissimo in Aula, quand’era troppo tardi); era piena estate, il momento migliore per piazzare un blitz. Che riesce. Già pochi giorni dopo pioveranno critiche: quel testo è un disastro.
Cronaca di una brutta legge e della sconfitta del buon senso
Il lavoro fatto da alcuni parlamentari per migliorarlo, giovedì scorso, si concentra sul primo articolo, si limano alcune definizioni, per la versione definitiva del disegno di legge sono manifestazioni di bullismo:
Una serie di comportamenti di diversa natura: atti vessatori, pressioni o violenze fisiche e psicologiche, istigazione all’autolesionismo e al suicidio, minacce e furti, danneggiamenti, offese e derisioni anche relative alla razza, alla lingua, alla religione, all’orientamento sessuale, all’opinione politica, all’aspetto fisico o alle condizioni personali e sociali della vittima.
Nei vari commi dell’articolo si arriva ad escludere i prestatori, concentrandosi sui gestori di siti. Ciò esclude di fatto gli hosting provider e le grandi piattaforme. Viene fatto notare che la combinazione di questo limite con l’estensione a tutte le età porta a un potenziale crash del Garante della privacy, chiamato dalla legge – interpretando la direttiva europea sulla protezione dati che andrà in vigore nel 2018 – a rimuovere i contenuti non rimossi volontariamente dai siti entro 48 ore. Un gran daffare per un’autorità che non è certo stata pensata per assoggettarsi a doveri mutuati dal contrasto allo stalking.
La legge sul cyberbullismo è stata approvata ala Camera senza emendamenti Così, in spregio ai 4 parlamentari digitali che ci avevano provato
— massimo mantellini (@mante) September 20, 2016
Nell’articolo 2, al centro della discussione di ieri, il capolavoro: rientrano nominalmente i social network, ma questo si contraddice col comma 3 dell’articolo 1 e soprattutto confonde le prerogative di due authority: quella sui dati personali e quella dell’autorità garante per le comunicazioni, l’Agcom, che ha un suo regolamento per l’oscuramento dei siti. La legge sul cyberbullismo dà nuovi compiti al Garante privacy senza dotarlo di particolari risorse umane, economiche e legislative. In questo modo si crea un pasticcio tanto impressionante che alcuni parlamentari della maggioranza, assai poco convinti ma che alla fine hanno votato o si sono astenuti, confessano ai giornalisti (a taccuini chiusi) di sentirsi sollevati: così non funzionerà mai. È una legge di moral suasion, inapplicabile.
Chi resta con niente in mano? Persone come Paolo Picchio, padre della quattordicenne Carolina, morta suicida dopo alcune molestie avvenute tramite le chat, che ha tuonato contro la legge. Ingolfando tutto quanto, spinti dall’esigenza di dare una risposta più digeribile all’opinione pubblica scossa da certi episodi, i politici di fatto non aiutano le vittime. Il giudizio dato alla stampa e ribadito ieri sera alla trasmissione “Politics” è durissimo:
Questa legge era pensata per tutelare i minori, dava loro strumenti specifici per segnalare episodi di bullismo e puntava sull’aspetto educativo. Chi ha fatto di tutta l’erba un fascio ha tradito Carolina, è come se l’avessero uccisa un’altra volta.
Che ci sta a fare il comitato?
Un altro aspetto incredibile della giornata di ieri è che nelle stesse ore della discussione in Aula si teneva un incontro del comitato per i diritti in Internet, con ospite la ministra Marianna Madia. Dentro quel comitato, nelle parole del loro Bill of Rights votato pochi mesi fa dalla Camera con la promozione della presidente Laura Boldrini, c’è tutta l’intelligenza che sarebbe servita a dare senso alla legge che si stava discutendo. Invece, a nessuno è venuto in mente di interpellare questa risorsa che tiene assieme politica e società civile. Non sarebbe stato prezioso sentire gente come Rodotà, De Biase? Considerando tutto quanto accaduto, torna in auge una proposta sponsorizzata da sempre dal giornalista e saggista, cioè un meccanismo di valutazione di impatto digitale delle leggi del Parlamento. Magari, come propone da anni Paolo Coppola, una Commissione Permanente sul digitale. Ci fosse stata, gli emendamenti del 27 luglio avrebbero avuto una seconda lettura e non sarebbero mai passati. E oggi non parleremmo di una legge che non piace a nessuno, neppure alle vittime alle quali è formalmente intitolata.
Diritti in Rete, la Ministra @mariannamadia in Commissione per l'#Internet #BillOfRIghts presieduta dalla Presidente @lauraboldrini pic.twitter.com/KAtjS7sHTz
— Camera dei deputati (@Montecitorio) September 20, 2016
Ne valeva la pena?
È la domanda che si dovrebbe porre a chi ha sostenuto questo testo contro i pareri degli esperti, gli emendamenti di chi, come Stefano Quintarelli, è molto ascoltato fuori e dentro l’aula e si è trovato costretto a non partecipare al voto per non rompere con la maggioranza, contro la denuncia dei parenti delle vittime di cyberbullismo. Ne valeva la pena? In Senato c’era una legge che aveva trovato unanimità di intenti e testo. Alla Camera si è prodotta una frattura nei gruppi della maggioranza a sostegno del governo e si è perso per strada il contributo del M5S. In Senato ci si era concentrati sui minori, alla Camera hanno cambiato la legge estendendola a tutta la popolazione, annacquando il problema dentro un problema differente e più grande. In Senato era chiara la volontà di puntare sulla digital literacy nelle scuole, alla Camera ci si è spremuti le meningi per trovare la quadra nel dare un potere al Garante della privacy che non aveva mai chiesto e che paventa anche, in caso si pensasse davvero di applicarla, una censura nei confronti dei blog e delle testate giornalistiche.
Se lo chiedano. Ne valeva la pena?