“Make America Great Again“, e Donald Trump è diventato Presidente degli Stati Uniti. Tra l’imbarazzo di molti. Di quanti credevano che gli endorsement avessero peso decisivo, di quanti hanno creduto che colonizzare Twitter bastasse, di quanti si sono affidati all’analisi della Silicon Valley, di quanti non dubitavano dei Big Data e dei social network schierati con la Clinton.
In una notte tutto è cambiato e ci si risveglia con una nuova consapevolezza: è tutto molto più complesso di quanto i media non abbiano raccontato negli ultimi mesi. E la democrazia ha strade sue, spesso imperscrutabili, ma comunque basate sulla libera espressione in regime di libertà di scelta. Ma il percorso che porta a questa scelta ne ha dette di cose, ne ha lasciate di ferite. Ora bisognerà ricucirle e Trump lo ha sottolineato fin dal primo discorso da neo-Presidente. Se molte delle ferite sono sulla pelle di Hillary Clinton, al tempo stesso sono trasfigurazione di ferite che oltre il 40% dei cittadini USA sente proprie: chi ha osteggiato Trump, chi lo ha considerato un farabutto, chi lo ha considerato indegno, chi lo ha stigmatizzato come comparsa in una corsa priva di alternative alla vittoria dei Democratici.
Una ferita sembra sanguinare più di altre: è quella della Silicon Valley. Il mondo della tecnologia non è mai stato al centro delle attenzioni di Trump, infatti, e quando Trump ne ha parlato i toni sono mai stati dolci. Ma ora il “commander-in-chief” è lui e nella realtà il pulsante “annulla” non è previsto: nella democrazia è meglio risolvere i bug con il dialogo, perché i CTRL+ALT+Canc sono troppo traumatici per essere una opzione valida.
Una ferita chiamata Trump
Dalle parole di Trump è trapelata a più riprese una congenita sfiducia nei confronti del mondo delle nuove tecnologie. Un rapporto, in realtà, di sfiducia reciproca che non è mai decollato e che non ha mai visto l’impegno delle parti per una riconciliazione. E mentre Trump metteva al centro l’immigrazione, la Silicon Valley cercava di fare fronte comune per tentare di capire come frenare l’avanzata del tycoon. Tutto inutile. Non solo: mentre Trump spostava altrove le proprie attenzioni, la tecnologia ricadeva come un boomerang sul capo di Hillary Clinton attraverso lo scandalo delle email private su server Yahoo, caso che potrebbe aver fatto la differenza durante le concitate fasi finali della campagna elettorale.
Che la Silicon Valley sorridesse alla Clinton era cosa conclamata: caldi e appassionati endorsement erano giunti da tutte le parti, i big erano tutti schierati ed è trapelata addirittura l’ipotesi per cui Tim Cook e Bill Gates fossero stati valutati come possibili vicepresidenti. Trump da parte sua ha ignorato il settore ed ha tirato dritto, difendendosi a spallate ogni qualvolta la Silicon Valley provasse a mettersi di traverso: Apple si è ricevuta un “chi credete di essere?” per non aver aperto i propri server all’FBI, e Trump ne ha anche criticato il collaborazionismo con la Cina motivato dalla necessità di marginalità maggiori alle spese dell’occupazione su suolo americano; Facebook ha sofferto la polemica dei propri editor relativa a trend topic ipoteticamente manipolati contro la causa di Trump (dopo che Zuckerberg si era apertamente schierato contro Trump pochi mesi prima); Google non è stato da meno e si è messo di traverso per voce di Sundar Pichai; Jeff Bezos, che contro Trump ha scagliato il suo Washington Post, si è sentito dare del monopolista e ora non troverà strada facile con la propria Amazon. Se a questo si aggiungono le invettive sulla Net Neutrality, contro Edward Snowden e sulla cyberwar, ne esce il quadro di una antiteticità congenita tra due mondi lontani e diversi, con poche cose in comune e con molti potenziali punti di attrito.
Tuttavia Trump lo ha spiegato chiaramente: vuole essere il Presidente di tutti. Non solo: si aspetta proprio dalle controparti gli spunti sui quali tornare a costruire un’america unita. Trump tende la mano: difficilmente la stringerà con entusiasmo a tutti, ma da tutti pretende collaborazione perché a tutti la offre. Tra il Presidente USA e la Silicon Valley si aprono ora mesi cruciali, nei quali le parti sono costrette a parlarsi e a capirsi. Di fronte c’è una guerra fredda digitale da combattere, e Trump è colui il quale ha difeso la Russia per lungo tempo dalle accuse di cyberspionaggio girando le accuse alla Cina: con i big della tecnologia si potranno trovare punti in comune su cui costruire la difesa delle infrastrutture tecnologiche al cospetto dei cracker di stato orientali? Il personaggio che si era opposto alla liberazione dell’ICANN dall’egemonia USA dovrà ora guidare l’esercito digitale che deve tutelare le informazioni e le reti americane: troverà il necessario appoggio nell’esercito che lo dovrà spalleggiare in questa difficile battaglia?
Lo schiaffo dell’elezione è arrivato e lo ha sentito tutto il mondo. Gli USA si ritrovano divisi, ma la telefonata della Clinton e il discorso di Trump hanno immediatamente ricominciato a unire il popolo attorno alla bandiera. Sotto questi formalismi ci sono dinamiche da ricostruire dopo uno strappo ampio e profondo durato una intera campagna elettorale.
Senza dimenticare che da oggi POTUS non è più Barack Obama (il Presidente che invitava la Silicon Valley a cena alla Casa Bianca e che ha 2,9 milioni di follower su Facebook e 11,4 su Twitter), ma Donald Trump, il neo-Presidente che con la Silicon Valley non ha condiviso che meme. Non conta chi sia follower e chi non lo sia: la realtà ha dimostrato come i social network siano una bella cosa, ma possano delineare soltanto dimensioni apparenti, circoscritte, parallele, mediate. Suggestive fin che si vuole, ma nei seggi si va da soli: giornali, influencer, sondaggisti e retweet rimangono fuori. Si chiama democrazia, è una cosa complessa e raffinata, e gli algoritmi non sono ancora pronti a capirla del tutto.