Ormai ci sono pochissime possibilità – anzi, probabilmente nessuna – che il presidente degli Stati Uniti, quello uscente, possa utilizzare il suo potere esclusivo per perdonare Edward Snowden e così consentirgli il ritorno in patria. La non-decisione di Obama di fatto è una condanna per il whistleblower ad altri quattro anni di difficoltà, visto che l’amministrazione Trump si distinguerà per la sordità sulle violazioni perpetrate dall’agenzia per la sicurezza nazionale.
L’ex contractor Cia e Nsa vive in Russia da più di tre anni, dopo una rocambolesca fuga da Hong Kong quando decise di far trapelare documenti che rivelarono un programma di sorveglianza segreta e globale condotta dalla National Security Agency, talvolta in collaborazione con le principali aziende di telecomunicazioni e talvolta senza, ma pur sempre con tecnologie tremendamente invasive. Esplose il cosiddetto Datagate, che ha significato in ordine cronologico moltissime polemiche della società civile, proposte di riforma, crisi diplomatiche con paesi amici in Europa, l’accusa del Dipartimento di Giustizia di violazione della legge del 1917 e al contempo la pronuncia dei giudici federali sulla incostituzionalità della raccolta di metadati “a strascico”, il crollo del ventennale rapporto di scambio di informazioni Usa-Europa, il premio Pulitzer al giornalista Glenn Greenwald, il primo a credere in quel ragazzo e a gestire l’enorme quantità di informazioni fornitegli (oggi organizzate attorno al sito The Intercept), il premio Oscar al documentario della regista Laura Poitras su quei giorni che decretarono la fuga in Russia e l’impossibilità di andarsene da Mosca, e infine la richiesta da parte di molte associazioni per le libertà civili di un “perdono presidenziale” – l’equivalente della nostra Grazia concessa dal Quirinale – per i meriti del giovane americano che ha denunciato una situazione di acclarata violazione dei diritti di milioni di persone.
Niente perdono, anzi
«Non posso perdonare qualcuno che non è passato davanti a un tribunale», ha spiegato il presidente Obama in una intervista a Der Spiegel avvenuta durante la sua recente visita in Germania. Una battuta a cui ha fatto seguito un commento equilibrato, probabilmente per evitare altre tensioni coi subentranti: secondo Obama, infatti, Snowden ha sollevato «alcune preoccupazioni legittime», tuttavia non seguendo le procedure e le pratiche dell’intelligence americana. Bella forza, visto che Snowden ha già dimostrato come i suoi tentativi di pressione interna siano stati sempre boicottati e silenziati. In ogni caso, una sentenza della Corte Suprema risalente addirittura al 1886 smentisce Obama, che avrebbe il potere di applicare la grazia anche a una persona come l’ex spia americana. Evidentemente non vuole. Per quale ragione?
Purtroppo, il clima politico americano è cambiato radicalmente, e se già prima l’amministrazione americana, anche con Obama, ha fatto pochissimo contro la sorveglianza e per i diritti di persone come Snowden o Manning, ora stanno per stabilirsi nei centri di potere dei personaggi decisamente radicali, come Mike Pompeo, candidato in pectore per la guida della Cia, che al Congresso e in campagna elettorale ha sostenuto che Snowden andrebbe giustiziato. Con queste persone la strada di Snowden è completamente bloccata, e l’amicizia – presunta – fra Trump e Putin suona inquietante per il suo destino, quello di una persona quasi smaterializzata.
An earthquake is buried in this story about NSA Director secretly meeting Trump: @NSAGov still can't keep secrets. https://t.co/VfjITosQM4 pic.twitter.com/EKdw5oc4ms
— Edward Snowden (@Snowden) November 19, 2016
Intanto, anche in Italia sta per arrivare al cinema il film di Oliver Stone dedicato al whistleblower, forse in ritardo rispetto al dibattito, ma anche una perfetta sintesi narrativa, per il grande pubblico, di ciò di cui si sta parlando. Anche se la sensazione è che importi davvero a un numero ancora troppo esiguo di persone, mentre tutte le altre sono ancora convinte – ingenuità loro – che “quando non hai nulla da nascondere possono spiare quanto vogliono”. Un errore madornale che sta alimentando ogni approccio, compreso quello sulle cosiddette fake news e la disinformazione. C’è il terrorismo? Aprire la crittografia. C’è un rumore di fondo nei social? Spegnetelo. Peccato che la storia insegna che quando si dà il potere alla politica o alle aziende di decidere al posto nostro cosa è vero e cosa è falso e cosa dobbiamo vedere e cosa invece no, i loro criteri poi non ci piacciono per niente. Ma a quel punto è troppo tardi.