Nel 2014 la relazione tra un uomo e una donna si ruppe e lui pensò di vendicarsi pubblicando online alcune immagini pruriginose dell’ex-fidanzata. Aprì così un falso account Facebook a nome della stessa e vi caricò su le immagini, riversando così in una malefatta la voglia di rivalsa nei confronti di quello che riteneva un affronto subito. Dietro questa triste storia non v’è nulla di particolare rispetto a molte altre simili già registrate nel recente passato, se non che la vittima ha intrapreso le vie legali non soltanto contro l’ex-fidanzato, ma anche nei confronti di Facebook e del suo fondatore Mark Zuckerberg.
Di fatto la questione potrebbe andare in archivio sotto l’etichetta di “revenge porn“, lasciando alla giustizia il giudizio sull’uomo che si è macchiato della pubblicazione. Ma la forma con cui l’accusa ha portato avanti la questione tira in ballo una serie di questioni estremamente spinose a cui Facebook non potrà ora non rispondere. Il social network peraltro ha già fatto capire a più riprese di non voler abdicare alle proprie responsabilità, ma in ogni occasione ha rimarcato la differenza tra quanto può fare e quanto deve. E la differenza è soprattutto nei tempi, poiché il social network non ha la possibilità di agire proattivamente sui contenuti caricati e non può effettuare controlli capillari istantanei sull’immensa quantità di materiale caricato secondo dopo secondo in tutto il mondo.
L’accusa, secondo quanto riportato da La Repubblica, intende tirare in mezzo Facebook identificando la colpa nella mancata sorveglianza del social network nei confronti degli utenti che abusano dei suoi strumenti. In particolare vengono ravvisate «condotte omissive, non individuando un metodo che consenta di identificare con certezza le persone che aprono dei profili e la corrispondenza tra il profilo e il nome». Secondo l’avvocato Giancarlo Sparascio, insomma, Facebook deve prevedere che il suo strumento (un mano ad oltre un miliardo di persone in tutto il mondo) possa essere usato per finalità differenti da quelle legittime e deve pertanto se non altro offrire un collegamento biunivoco tra gli account creati e le persone che li generano. La mancanza di tale proattività meriterebbe l’attenzione della giustizia italiana, che sarà ora chiamata a pronunciarsi nel merito.
Il processo si è aperto nei giorni scorsi presso la Procura della Repubblica di Torre Annunziata, ove è ravvisata la competenza territoriale in virtù del fatto che il colpevole, residente a Pompei, ha presumibilmente concretizzato il reato presso la propria abitazione.
Il caso si inserisce in un contesto nel quale da più parti al social network vengono addebitate responsabilità di ogni tipo, chiedendo a Zuckerberg strumenti di controllo più serrati. Dal revenge porn al cyberbullismo, passando alla circolazione delle bufale, a Zuckerberg viene affidato lo scettro del controllo per poi temere lo strapotere di un social network tanto diffuso e tanto potente. Di sentenza in sentenza, di ragionamento in ragionamento, si arriverà in pochi anni ad un riequilibrio basato probabilmente su nuovi parametri e nuovi strumenti, ma i casi vanno oggi letti per quel che valgono nel contesto in cui emergono. Il caso di Pompei, quindi, andrà giudicato per quel che è Facebook oggi e per quel che omette secondo la tesi dell’accusa: una identificazione personale forte di chi vi agisce tramite la creazione di account e contenuti. Qualcosa che in Cina sarebbe visto come uno spiraglio contro i cospirazionisti, ma che in Italia qualcuno anela come strumento per perseguire reati.
Il contesto è confuso e anche per la magistratura il compito sarà pertanto estremamente complesso.