«Arianna Drago è una ragazza che ha trovato il coraggio di denunciare un fenomeno intollerabile, quello di alcuni “gruppi chiusi” su Facebook, sui quali circolano foto rubate da profili di donne e adolescenti. Immagini che vengono poi postate in questi gruppi e ricoperte da commenti ripugnanti, tutti a sfondo sessuale».
Drago, Boldrini, Mentana
Per iniziare a raccontare questa brutta storia occorre partire dalle parole con cui l’ha raccontata Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati. Perché questa storia nasce anzitutto dal megafono rappresentato dalla sua pagina e dai suoi 230 mila follower.
Tutto ha inizio con Arianna Drago, la quale ha portato sulla propria pagina Facebook una serie di screenshot derivati da alcuni gruppi chiusi dai contenuti sicuramente deplorevoli sotto molti punti di vista. Un manipolo di pervertiti secondo alcuni, volgari onanisti secondo altri, uomini mai usciti dall’adolescenza secondo i punti di vista più bonari: “maschi”, in ogni caso, che usano fotografie di ignare “femmine” per sfogare per iscritto i propri istinti sessuali. Il linguaggio si fa giocoforza volgare, come nella necessità profonda di urlare la propria virilità e sfogarne gli istinti. Gruppi che diventano simulacro di un bar di periferia o del muro di una turca, confessionale fatto di istinti bassi e sporchi di violenza verbale.
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Il rilancio di Laura Boldrini e la successiva segnalazione di Enrico Mentana (760 mila follower) fanno il resto. Il caso diventa questione nazionale poiché online sono milioni gli utenti che imbattono nella vicenda e la notizia viene perimetrata da quel che la Boldrini sostiene: Facebook non si sta assumendo le proprie responsabilità e, invece di fermare questi gruppi e queste volgarità, ferma chi ne sta portando avanti la denuncia (la stessa Arianna Drago sarebbe stata fermata per aver riportato i medesimi contenuti che Facebook in precedenza non aveva censurato).
A colpi di #iostoconarianna, e ricordando i recenti incontri in tema hate speech, Laura Boldrini rincara:
È inaccettabile che una piattaforma globale con 28 milioni di utenti solo in Italia, che dice a parole di voler combattere l’hate speech, usi poi la censura contro chi denuncia l’odio attraverso la pubblicazione di oscenità e violenza mentre non interviene nei confronti di chi lo mette in atto e se ne fa vanto.
A Laura Boldrini va dato atto di portare avanti una battaglia estremamente coerente e lineare. Il problema è che si tratta di una battaglia che non entra nel merito della disamina, limitandosi ad additare fenomeni e proponendo la censura come unica soluzione.
Dunque, perché nessuno spiega alla Boldrini che sta lastricando con le sue buone intenzioni una via sbagliata, potenzialmente censoria e probabilmente inutile?
Facebook è un social network pieno di problemi poiché rappresenta la “nazione” più grande al mondo e si trova nella difficile situazione di dover sanzionare, controllare, al limite espellere. Tutto ciò andrebbe però fatto con un controllo capillare dei propri “cittadini”, il che è difficile da realizzarsi con le persone e pressoché impossibile con gli algoritmi. Se l’identificazione dei problemi è qualcosa che attiene all’analisi e al giudizio umano, la soluzione deve invece essere a livello di regolamenti (una volta individuato un paradigma accettabile) e di tecnica (una volta individuato il sistema per porre in essere la gestione del paradigma). Ad oggi mancano, di fatto, l’uno e l’altro.
Se il punto fermo è che si provi naturale ribrezzo per la pochezza, la bassezza e la volgarità di certi gruppi, a che livello è possibile intervenire per fermarne la proliferazione? Qualche possibilità-non-possibilità:
- le volgarità proferite potrebbero accendere l’allarme, portando Facebook alla rimozione di gruppi che, benché chiusi, non rientrano in canoni (pur blandi) di buona educazione. In tal caso occorrerebbe però stabilire quali siano le parole da filtrare. Meno semplice è gestire il filtro per concetti, il che porterebbe a vietare frasi volgari e innocenti, salvaguardando invece sottili allusioni criminali: una contraddizione e una soluzione che la stessa Boldrini probabilmente non gradirebbe;
- le immagini pubblicate andrebbero controllate e le persone ritratte dovrebbero ricevere un alert affinché possano controllare come sia stata usata la propria identità, affinché nessuno sfrutti immagini altrui senza autorizzazioni. Ciò sarebbe però possibile soltanto se ogni persona al mondo fosse iscritta a Facebook, se ogni paese al mondo consentisse l’identificazione facciale e se gli algoritmi di identificazione funzionassero in modo preciso: sarebbero i difensori della privacy, in questo caso, a lanciare strali contro siffatta tecnologia;
- Facebook, per moto proprio, dovrebbe assumere un esercito di persone che controllano i gruppi e li fermano qualora fuori dai paletti delle policy del network: cosa improbabile, visto l’alto numero dei contenuti caricati; cosa impossibile, vista la differenza tra nazioni e religioni in questioni sessuali e in termini di rispetto della dignità delle donne; cosa non auspicabile, visto che l’ombra de “Il Cerchio” sarebbe a questo punto oltremodo vicina. Come la Cina, del resto.
Oppure si può agire su un altro livello.
C’è bisogno di dialogo
E se la soluzione fosse invece dietro un sano dialogo, che avvenga al netto di accuse lanciate ad alzo zero? La segnalazione di Arianna Drago è stata utile poiché ha sollevato il problema, ma a questo punto serve qualcuno che proponga soluzioni sostenibili invece che cercare semplicisticamente nella censura un modo per spazzare la sporcizia sotto il tappeto.
In questo dialogo si potrebbe chiedere a Facebook spiegazioni per il proprio comportamento con le segnalazioni ricevute dalla community, affinché la trasparenza possa essere massima; in questo dialogo la Boldrini potrebbe esprimere i propri dubbi e ricevere feedback immediati; in questo dialogo si potrebbero trovare nuove soluzioni evitando di avvelenare il clima all’interno di una contrapposizione continua e ormai annidata nell’idealismo.
Nel dialogo (che non è fatto di post e contro-post) si potrebbero trovare competenze condivise da utilizzarsi per ridefinire le responsabilità delle parti: chi deve stabilire le regole? Chi deve controllare? Chi può censurare? Come collaborare, eventualmente, con le autorità?
Alla radice del problema
Ma soprattutto occorrerebbe chiedersi quale sia la reale natura delle persone che popolano questi gruppi: quali siano i loro veri problemi e perché abbiano trovato su Facebook lo sfogatoio ideale. Bisognerebbe chiedersi quali sono le differenze tra questi gruppi e i commenti a qualsivoglia post di Diletta Leotta o di Emily Ratajkowski (il tenore è identico, anche se nei gruppi chiusi sembra esserci meno ironia e forse, in parallelo, una paradossalmente amara sincerità in più).
Del resto è sufficiente pensarci su un attimo: il problema è nel fatto che certe persone pensino certe cose, oppure il problema è che le scrivano, peraltro squalificando così la propria immagine e in molti casi autodenunciando le proprie debolezze in pubblico? Il problema va identificato nel messaggio e nel suo autore, prima ancora che nel canale attraverso cui viene veicolato. Solo in un secondo momento, e solo dopo aver ben chiara la situazione, ci si potrà rivolgere a Facebook per suggerire interventi radicali. Ma nascondere lo sporco sotto il tappeto non serve: è solo un hashtag e vale meno di una briciola.
Non passi il messaggio dell’impunità, poiché sarebbe diseducativo e aggraverebbe il problema. Ma non passi nemmeno il messaggio della censura, perché porterebbe soltanto ad una ulteriore compressione degli spazi entro cui certi istinti vengono sfogati. Non passi soprattutto l’idea per cui esistano soluzioni semplici per problemi complessi. Passi invece la voglia di capire senza la fretta di reagire: quel che Facebook mette in luce è un problema che nasce ben al di fuori di Facebook, dunque non è attraverso Facebook (non certo in modo esclusivo) che questo problema può trovare soluzione.