Quando ci si ferma a riflettere (e a scrivere, cose spesso coincidenti) di “fake news“, il discorso slitta sempre sul medesimo versante: quello di chi produce, elabora, distribuisce, pubblica. In generale, la parte analizzata è sempre quella che emette la notizia, nei diversi livelli, nei diversi ruoli e nelle diverse fasi in cui vi si partecipa: chi la pensa, chi la scrive, chi vi trova uno spazio di pubblicazione, chi la distribuisce. Tali disamine sembrano dare per scontata la figura passiva (o di eco semiautomatico) del lettore.
Con tutta evidenza trattasi però di un discorso zoppo che, nel proprio lento incedere, sembra in grave difficoltà: di fatto il problema delle “fake news” trova oggi ben poche ipotesi costruttive, ognuna delle quali smontate rapidamente da schiere di critici pronti a sfoderare validissime questioni di principio. Di fatto, però, non se ne esce: Google ha fatto bene a fermare ByoBlu? Ma con che diritto Google e Facebook possono decidere chi o cosa ha diritto di essere retribuito o divulgato? Cosa distingue una fake news d’agenzia da una fake news da retweet? Quando, chi e come si decide che una notizia è “fake”, immaginando quest’ultima parola nel suo senso assoluto di sanzione definitiva e deliberata?
L’altra faccia delle fake news
Le ragioni del lettore (↑)
La sensazione è che queste considerazioni siano zoppe poiché non considerano a sufficienza le motivazioni che stanno alla base di un fronte parallelo e complementare: le ragioni del lettore. Di quest’ultimo spesso si son lette disamine massimaliste, raramente volte ad approfondirne ragioni recondite. A questo punto è però il momento di fare un passo avanti per considerare entrambi i lati della questione.
Bipolarismo (↑)
Ognuno di noi è lettore e scrittore allo stesso tempo. Una novità assoluta, per molti versi, e qualcosa di cui non abbiamo ancora esattamente piena coscienza. Succede poiché ognuno di noi ha oggi mezzi e capacità per fare entrambe le cose: per leggere, poiché l’informazione è libera e gratuita come mai lo era stato in passato; per scrivere, poiché mai come oggi sono disponibili strumenti e piattaforme che offrono a chiunque l’opportunità di farsi leggere, notare, ascoltare. Un aspetto differente, e più interiore, è invece disponibile in varia misura e non sempre a sufficienza: la capacità di capire, analizzare ed elaborare. Di qui la carenza di alcuni lettori e alcuni scrittori, i quali si trovano arricchiti soltanto di strumenti e non di capacità intellettive realmente all’altezza.
In questo bipolarismo v’è la complessità della natura di ognuno di noi. Ma se siamo una figura così complessa, nella quale per la prima volta lettore e scrittore coesistono all’interno della stessa entità intelligente, allora non possiamo continuare ad analizzare una parte (quella dello scrittore) come fosse una figura profonda e degna, mentre quell’altra parte (quella del lettore) rimane ferma tra gli archetipi dell’entità passiva.
Il lettore (così come il votante) è spesso considerato come unità singola di una grande massa, qualcosa di cui ragionare solo in termini quantitativi e statistici: goccia nel mare, uno tra molti, polvere di big data. Perché questa asimmetria? Si tratta probabilmente anzitutto di una eredità dei decenni passati, quando la cultura mainstream dava sicuramente maggior dignità a chi stava “dall’altra parte dello schermo”: sorridere alla telecamera o sedere in una redazione era questione di potere, mentre oggi è cosa democraticamente disponibile a chiunque abbia accesso a pc, internet e webcam.
Animale e bot (↑)
Ed è così che il lettore (così come il votante) spesso è dipinto come una capra che sbatte la testa contro false soluzioni senza essere in grado di identificare i veri problemi; è dipinto come un asino illetterato che non è in grado di capire realtà troppo complesse; è ritratto come una pecora, pronto a seguire la massa quand’anche quest’ultima dovesse andar dritta verso un suicidio di massa.
Eccola l’epoca dei populismi e delle fake news, due facce della stessa medaglia (espressioni di una medesima dinamica, ma non certo ricollegati in modo esclusivo): chi vende fake news e chi vende populismi, del resto, sta vendendo una versione della realtà per fini differenti: propagandistici in un caso, di mercato editoriale nell’altro. Populismi e fake news, insomma, mettono a disposizione versioni di realtà ritagliate su indagini quantitative per far sì che qualcuno creda, clicchi e voti. Spesso il discorso termina qui: il lettore/votante è capra, pecora o asino, se non addirittura bot, ma in ogni caso destinato ad agire in preda ad allucinazioni collettive e secondo schemi prestabiliti dalla statistica e dalla sociologia.
La dignità del lettore e del votante (↑)
«La gente vuole essere continuamente rassicurata che quello che già crede sia vero». Marco Montemagno ha ottimamente riassunto in questa frase una situazione ormai radicata, fotografando alla perfezione quello che è il rapporto odierno tra chi produce l’informazione e chi la fruisce (e ricordiamolo: ognuno di noi siede sia da una parte che dall’altra in funzione delle proprie attitudini, emotività, impulsi).
Ma occorre fare un passo oltre e chiedersi “perché”. Perché abbiamo bisogno di essere rassicurati che quello in cui si crede sia vero? Perché siamo disposti a cercare argomenti ovunque, purché possano puntellare le nostre ipotesi? La risposta potrebbe essere al di fuori dei semplici schemi della politica e della comunicazione, ed essere invece molto più inerente a quelli dell’identità e della coscienza di sé.
Le difficoltà del “sé” (↑)
Chi sono? Come mi posiziono in questa società? Qual è il mio ruolo? Trattasi di domande che sempre più spesso faticano a trovare una risposta. Succede perché la società è in profondo cambiamento per molti motivi, i ruoli sono mutevoli e la formazione del “sé” si fa così sempre più complessa. La famigerata complessità dei problemi non esenta le persone, le quali si trovano immerse in sconvolgimenti che avvengono a ritmo sempre più rapido, immerse in flussi di informazioni a cui non siamo né abituati, né culturalmente pronti.
L’analisi del lettore e del votante porterebbe dunque probabilmente a questo rapporto con la politica e con l’informazione: la persona ha assoluto bisogno di trovare conforto nelle proprie convinzioni, cercando di volta in volta argomenti per consolidarle o candidati per supportarle. Non si può rinunciare al sé (o alla percezione che si ha di sé), soprattutto quando ogni singolo giorno ci sono milioni di utenti pronti a confutare le tue tesi, milioni di statistiche pronte a demolire le tue convinzioni e milioni di occasioni di scontro in cui affogare in una bulimia di argomentazioni. Il sé diventa fondamentale poiché ultima comfort-zone rimasta, pur se sempre più angusta e violentata.
L’utente che crede nella bufala, lo fa perché si sta semplicemente difendendo: fa spazio attorno a sé e fa community, cercando rifugio ora in questo ed ora in quel gruppo. Sono i gruppi a definire il sé, non viceversa: sono i luoghi comuni in cui rifugiare temporaneamente la propria identità, costruendola di volta in volta attraverso queste vesti temporanee. La paura porta alla chiusura, il coraggio porta a spogliarsi.
La bufala e il meme, il teorema complottistico e i grandi afflati para-rivoluzionari sono la coperta di Linus di cui abbiamo bisogno per sentirci al sicuro, insomma. All’interno di una tempesta, non ci si ferma troppo all’analisi poiché sarebbe deleterio: all’interno dell’attuale tempesta sociale, mettere in discussione le proprie convinzioni (segno inconfutabile di intelligenza) diventa quindi pericoloso e in assenza di basi solide si preferisce la tana che mette rapidamente al sicuro. Qualunque essa sia.
Trovare una tesi che conforta offre la stessa sensazione della coperta calda; condividere questa tesi tra i propri amici è un modo per scaldarsi ancora di più e rafforzare la propria posizione in un branco (perché l’uomo è sì animale, ma non capra o asino: è uomo). Il linguaggio è quindi sempre di più atto perlocutorio, poiché automaticamente richiamo all’azione. Lo pretende la struttura stessa dei social network, ove oggi si riversa gran parte delle comunicazioni interpersonali, ove l’interazione è quel che l’elettricità rappresenta per l’energia.
L’altra faccia delle fake news (↑)
L’altra faccia delle fake news va vista nell’altro lato della comunicazione: ogni messaggio diventa atto compiuto, infatti, quando un emittente lo produce, un canale lo trasporta, un codice lo rende comprensibile e un destinatario lo riceve ed elabora. Ogni azione di filtro sulle fake news agisce cercando di tagliare questa dinamica in modo spartano e spesso sconclusionato, come se dividere i due poli possa bastare e possa essere una soluzione.
Il tema è chiaramente complesso, ma ogni filtro può soltanto essere una soluzione temporanea che poco si allontana (se non altro in termini di principio) nella chiusura delle frontiere per salvarsi dal nemico che viene da lontano.
Verso una soluzione (↑)
Per risolvere il problema dell’informazione (e della politica) inquinata dalle fake news occorre lavorare invece sui due poli. Su chi produce, anzitutto, affinché non abbia interesse alcuno a veicolare informazioni errate, falsificate o falsificanti: le fake news debbono diventare un meccanismo che non goda di alcun incentivo. Su chi fruisce, affinché possa avere strumenti e capacità di elaborare tali da poter autonomamente capire quali siano le fonti valide, quale sia l’autorevolezza e quale sia la notizia affidabile rispetto a quella che non lo è: maggiori capacità analitiche diffuse, insomma, riscrivendo autonomamente la mappa delle fonti e della fiducia.
Occorre tornare a considerare la persona in quanto tale. Recuperando gentilezza e rispetto, anzitutto: senza considerarla esclusivamente come parte di un tutto (nozione valida per il mainstream, forse, ma non certo per tutto quel che sta per arrivare), senza pensare di tirarla per la giacchetta ogni singolo giorno, senza violentarne le convinzioni solo per cavalcarne le debolezze. Non si tratta di produrre leggi o normative ad hoc, ma di riscrivere la netiquette e l’educazione: si tratta di agire ad un livello più sottile e interpersonale, perché è di persone che si sta parlando.
Dobbiamo (noi, le metà scriventi del “sé”) tracciare un nuovo perimetro dell’educazione, poiché le condizioni sono cambiate e perché, convivendo scrittori e lettori nella stessa persona, rispettare il lettore significa sostanzialmente rispettare sé stessi. Populismi e fake news sono soltanto il rumore che c’è nella tempesta: riportiamo le persone alla luce del sole, facciamole sentire al sicuro, spieghiamo loro qual è la strada per uscirne ed evitiamo che rimangano rintanate con le loro coperte di Linus da condividere a colpi di punti esclamativi.
C’è molto da fare, ma c’è molto da guadagnarci: come ogni tempesta, sarà tanto violenta quanto rapida. Ma già per la prossima generazione le “fake news” saranno la sfumatura medioevale che ha dato colore e olezzo alla nostra epoca di debuttanti della postmodernità.