Decine di aziende, soprattutto quelle tecnologiche – tra cui Apple, Google e Facebook – hanno firmato un documento legale che condanna il recente divieto di immigrazione firmato da Donald Trump, sostenendo che la Casa Bianca infligge un “danno sostanziale” alla società americana, e, ben inteso, anche a loro. Le 97 firme sono arrivate ieri sera dopo un weekend frenetico in cui il muslimban di Trump è stato revocato, venerdì, da un giudice federale, blocco confermato quando l’appello da parte dell’amministrazione per ripristinarlo è stato respinto.
La memoria legale (pdf) delle tech company ao sostegno dello Stato di Washington – il primo ad adire contro il presidente e il suo decreto – potrebbe dunque essere in ritardo, oppure ridondante rispetto al procedere degli eventi, ma nell’attuale, incredibile situazione politica negli Stati Uniti ormai tutte le regole sembrano essere saltate. I giganti della Silicon Valley, che hanno rotto gli indugi verso una presidenza già prima poco amata, hanno lavorato a questa lettera per tutta la settimana, cercando di scrivere in modo sintetico e logico quanto da tempo ripetono a proposito dell’immigrazione: una risorsa indispensabile per il reclutamento in queste aziende innovative, che peraltro spesso proprio da immigrati sono state fondate. Come Brian Chesky, Ceo di AirBnB: ieri sera milioni di americani hanno visto uno spot durante l’intervallo del SuperBowl, appositamente realizzato dalla società per dare un inequivocabile messaggio alla nazione.
Full list of companies (1/2): pic.twitter.com/YfQ5dDeXM5
— Brian Goldman (@briangoldman) February 6, 2017
Uno dei passaggi del testo lo spiega così:
(con questo divieto) Si ostacola la capacità delle imprese americane di attrarre talento; aumenta i costi sulle imprese; rende più difficile per le aziende americane competere nel mercato internazionale; dà alle imprese globali un nuovo, significativo incentivo per costruire operazioni – e assumere nuovi dipendenti – al di fuori degli Stati Uniti.
Le reazioni di cui devono tener conto
Solo negli ultimi giorni Sheryl Sandberg di Facebook e Jeff Bezos di Amazon, due persone tra le più potenti degli Stati Uniti, anche politicamente, hanno apertamente criticato la neo insediata amministrazione repubblicana. A Google, i dipendenti hanno protestato la scorsa settimana presso la sede dell’azienda, mentre Uber si è trovata a perdere 200 mila utenze in poche ore a causa della presenza di Travis Kalanick nel comitato consultivo di Trump, tanto che il ceo di Uber ha prima rinunciato al ruolo, poi ha scritto a tutti i dipendenti spiegando che «entrare a far parte del gruppo non è stato concepito per essere un avallo al presidente e ai sui ordini del giorno, ma purtroppo è stato male interpretato».
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Queste società, enormemente capitalizzate, a volte quotate in Borsa, e che vivono della loro reputazione sociale che si basa anche su una certa narrazione del loro modello, non possono non tener conto delle reazioni popolari. Sono customer-centric, che in questo caso è diventato facilmente political-centric. Quanto meno a sostegno di Bob Ferguson, il procuratore generale che sta conducendo una dura campagna contro l’ordine, definito “illegale e incostituzionale”.