Avanti, ammettiamolo: a nessuno piacciono i selfie. Soprattutto quelli degli altri. Sono l’incarnazione narcisista ed egocentrica della nostra dimensione digitale, il ridurre l’interazione sociale all’apprezzamento indotto della propria immagine, la semplificazione estrema e immediatamente fruibile di ciò che di se stessi si intende proiettare all’esterno. Una maschera da indossare che calamita l’attenzione e gonfia l’autostima, scorciatoia espressiva per evitare i percorsi più impervi del dialogo e del confronto dialettico.
Esagerato? No, almeno stando a un’opinione sempre più diffusa, ora anche tra la comunità scientifica. È dello stesso parere gran parte del campione chiamato in causa da Sarah Diefenback e Lara Christoforakos della Ludwig Maximilians University di Monaco, nell’ambito di una ricerca intitolata The Selfie Paradox e pubblicata su Frontiers in Psychology. 238 le persone interpellate, provenienti da Austria, Germania e Svizzera: il 77% dichiara di scattare un selfie almeno una volta al mese, il 49% di riceverne uno a settimana e il 2% che vorrebbe vederne meno sulle bacheche dei social network.
Le cose si fanno però più interessanti se si prende in considerazione che il 90% dei partecipanti allo studio etichetta gli autoscatti altrui come “auto promozione”, mentre solo il 46% lo pensa dei propri. Focalizzandoci sulla discrepanza di queste due percentuali emerge un dato incontrovertibile: la visione che abbiamo dei nostri selfie è ben distante da quella percepita una volta che li diffondiamo nel calderone della grande Rete. A supportare la tesi anche il fatto che solo il 13% degli intervistati dichiara di cogliere l’ironia che l’autore dello scatto era certo di saper veicolare puntando l’obiettivo verso di sé.
La ricerca scende nel dettaglio e si spinge in un’analisi di ciò che, nella psiche, porta un soggetto ad immortalare il proprio volto e a renderlo di dominio pubblico, talvolta condividendo un ritaglio della propria intimità o della sfera privata. L’intenzione è in gran parte dei casi quella di smuovere interesse, di compiacere il proprio ego e di raccogliere apprezzamenti. La verità è che, spesso, con un selfie si entra a gamba tesa nella quotidianità degli altri senza rendersene conto, si irrompe sugli schermi di chi in quel momento si trova altrove, sia in termini spaziotemporali che di stato d’animo. Perché centinaia di persone dovrebbero mostrare interesse per il cocktail che sorseggi sulla sdraio, in spiaggia, mentre sono con tutta probabilità chiuse in ufficio in un lunedì mattina di inizio settembre?
Questo, ovviamente, quando il rapporto di condivisione è uno-a-molti, quando si scelgono i social network come vetrina dalla quale ammiccare arraffando like. Ben diverse le dinamiche che invece innescano l’invio di un’immagine in forma privata.
L’esplosione del fenomeno selfie è andata di pari passo con quella del mondo online, spinta anche da una democratizzazione dello strumento fotografico. Demonizzarlo non ha alcun senso, ma stimolare una riflessione volta ad una maggiore assunzione di consapevolezza diventa doveroso: si abbia coscienza che, forse, non tutti si svegliano con il desiderio irrefrenabile di veder i vostri (pardon, i nostri) faccioni comparire sul display dei loro smartphone. Chi proprio dovesse risultare impermeabile a questo tipo di ragionamento sappia almeno che c’è un motivo ben preciso se sotto ai post di Facebook e degli altri social network ci sono pulsanti per i like e non quelli con il pollice verso. A tal proposito, un suggerimento ripescato da un articolo comparso su queste pagine lo scorso anno.
L’unico consiglio davvero sensato è quello di contare fino a dieci (lentamente, più volte) prima di condividere pubblicamente un autoscatto realizzato in fretta o in maniera maldestra. Se si è alla ricerca di approvazione o like, si potrebbe ottenere esattamente l’effetto contrario. Un boomerang mediatico, una gogna pubblica 2.0 in cui ci si mette la faccia. Attenzione: la Rete non dimentica.