Le bufale? Solo se diffuse sul web e non dalle testate giornalistiche. Le punizioni per chi le pubblica? Ammenda e reclusione, con l’aggravante per chi “minaccia l’ordine democratico”. E poi obblighi di rettifica, definizioni generiche di falsità, disinformazione, anonimato, diffamazione, oblio. Quando ieri alcuni senatori di Ala (il gruppo legato a Denis Verdini) hanno presentato un disegno di legge di contrasto alle fake news è sembrato di assistere a una performance futurista. Invece è tutto vero: entro pochi giorni sarà assegnata la peggior legge mai vista, il capolavoro analfabeta del rumore dei nemici.
Il testo di legge (pdf) è già salito nelle ultime 24 ore agli onori del dibattito social, perlopiù raccogliendo le critiche di tutti coloro, giornalisti compresi, che hanno sufficiente preparazione per valutare il disastro completo di questa proposta. Una summa del peggio mai pensato sul web, con una fotografia netta di chi lo sostiene: a dimostrazione di quanto il problema sia trasversale e pre-politico. Come evidenziato con le proposte di Laura Boldrini: la disintermediazione ha in qualche modo alimentato una frustrazione in politica e media, che incolpano Internet di tutto quanto. Senza distinzioni, senza continenza, senza capacità di calcolare l’impatto delle proposte nell’habitat che si pretende di normare secondo un “buon senso” che non ha nulla né di bene né di sensato.
Una dei firmatari, Adele Gambaro (ex cinquestelle passata ad Ala) sostiene che non si tratta di un bavaglio, ma di una «battaglia di civiltà». Dicono tutti così, si passano l’espressione, ma dove stia la civiltà in queste proposte è impossibile vederlo. Qualche esempio a caso:
- Il ddl introduce una modifica al codice penale, si inserisce un 656-bis che prevede sanzioni di almeno cinquemila euro per chiunque pubblichi notizie “false e tendenziose”, ma che non sia una testata giornalistica.
- Si intesse un parallelismo con la diffamazione a mezzo stampa – mandando all’aria una distinzione precisa e insuperabile della Cassazione e in contrasto con la giurisprudenza europea che non differenzia affatto, ma parla di attività giornalistica in genere.
- Il testo prevede che per il discorso d’odio e le bufale, quando creino “allarme sociale” (ma cosa significa, come si potrà mai dimostrare in un’aula di tribunale?) sia punito con una reclusione a un minimo di due anni. In questo caso la legge è scritta in cagnesco: si mischiano le pene previste per due diverse tipologie di reati, delitti e contravvenzioni. Non si può prescrivere arresto e ammenda, né reclusione e multa. Chi ha scritto questa legge non sa neppure questo. Le pene per i delitti sono ergastolo, reclusione e multa; le pene per le contravvenzioni (o reati contravvenzionali) sono arresto e ammenda. La legge mette assieme pene previste per reati diversi in una sola norma incriminatrice.
- Per l’apertura di un sito web, un blog o un forum occorrerà iscriversi al registro della stampa (cos’è?) e avere una PEC per evitare “l’anonimato“. Un altro cliché anti-web: i dati vengono registrati dai provider, c’è già un protocollo giudiziario, basta chiederli a loro.
- Sui commenti un’altra mostruosità: responsabile è il gestore del sito (altra follia), non c’è termine per la rimozione (in contrasto con le norme europee), però in compenso viene introdotta la rettifica per i siti web con un automatismo per cui, se una persona si ritiene a suo insindacabile giudizio lesa il gestore deve rettificare forzatamente, senza pensare che in caso la rettifica contenga una falsità, per la stessa legge il gestore rischierebbe la galera.
- Nell’articolo 7 si dichiara, appunto, che i gestori delle “piattaforme informatiche” devono fare un “costante monitoraggio dei contenuti”. Norma contraria alla direttiva europea 2000/31/CE. Probabilmente nessun gestore OTT (Google, Facebook, Twitter, ma anche i fornitori di hosting) lavorerebbe più in Italia. La valutazione sulla non attendibilità e la successiva rimozione è lasciata, senza appello e senza ricorso ad alcuna autorità, ai gestori dei siti Internet: un chilling effect spaventoso. Autocensura indotta da uno stress di monitoraggio implicito contro ogni ragionevolezza.
- La legge parla anche, a caso, di oblìo. Ma il diritto all’oblìo ha già un suo iter preciso che va slegato dai contesti dell’informazione colpiti da questa legge, e dai suoi obiettivi di contrasto alle bufale e alla diffamazione.
Caso mai non si fosse capito: il DDL Gambaro è un impraticabile, osceno bavaglio. Non c'entra nulla con #bastabufale. Non fatevi confondere
— Paolo Attivissimo (@disinformatico) February 15, 2017
Una provocazione, un sintomo
Fermiamoci qui. Non vale neanche la pena entrare ancora di più nel dettaglio. Una legge del genere non ha alcun futuro ed è stata scritta da persone senza conoscenza della materia. Non sopravvivrebbe al centro servizi studi delle Camere, né a un dibattito serio nelle commissioni. È una chiara provocazione, ma anche un sintomo e per questo se ne deve parlare. A cosa puntano queste persone? Perché si stanno moltiplicando proposte di questo genere? Resta valido il principio culturale di fondo: la classe dirigente politica odia il web, così come parte del giornalismo più paludato. Incolpandolo di tutti i problemi del mondo nascondono (male) il fatto che lo incolpano di quel è che successo loro, cioè la disintermediazione. Lo sconvolgimento di pratiche e affari consolidati nel controllo dell’opinione pubblica.
C’è un elemento culturale ancora più di sfondo, quello sottolineato dal giornalista e professore Mario Tedeschini Lalli: la libertà di espressione è sempre stata, in Italia, considerata come un bene subordinato, e non un bene in sé:
Qualcuno dovrebbe chiedere a un istituto di sondaggi di farne uno che presenti la premessa del testo di legge: “La libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito dell’informazione, vuol dire una notizia corretta a tutela degli utenti” e chieda: Siete d’accordo?
La libertà di espressione in Italia non è considerata valore in sé, ma valore rispetto a un fine: è buona se dice cose buone o ha buone conseguenze.
Più in superficie, si nota il tentativo di sfruttare l’emotività a proposito dell’elezione di Trump, della Brexit, l’idea – bufala a sua volta – che le fake news siano responsabili dei populismi, per raccogliere consenso bipartisan. Una manna in tempi di proporzionale. Non c’è altro da dire. Sono operazioni di bassissimo livello.
Webnews inserisce questa proposta nel rumore dei nemici e rimanda tutti al panel che abbiamo organizzato insieme al Festival del Giornalismo di Perugia, per parlarne seriamente. Avverbio troppo spesso assente nella politica italiana, con le sue buone e fortunate eccezioni che fanno ancora sperare.