Prosegue il botta e risposta legale tra Waymo e Uber per quanto riguarda le tecnologie dedicate alla guida autonoma. Nel fine settimana il colosso del ride sharing ha replicato alle accuse mosse dalla divisione di Alphabet, definendole “dimostrabilmente false”, con una documentazione depositata presso il tribunale competente.
La questione verte sulla presunta sottrazione di circa 14.000 file riservati da parte di Anthony Levandowski, ex dipendente Google, poi co-fondatore della startup Otto specializzata nello sviluppo di sistemi self-driving da applicare ai camion per il trasporto merci. Il team è stato successivamente acquisito da Uber e la sua tecnologia LiDAR è al momento utilizzata sulle vetture autonome impiegate nei test per le strade degli Stati Uniti.
Secondo quanto sostenuto dal gruppo di Mountain View, il sistema si basa sulle informazioni rubate da Levandowski prima di lasciare il proprio incarico. Coinvolta nel caso anche una seconda persona, Lior Ron. Questa la posizione ufficiale dell’azienda, che si difende dall’imputazione, per mezzo di quanto dichiarato da Angela Padilla, consigliere generale associato del gruppo.
L’ingiunzione di Waymo è fuori luogo: non ci sono prove che i 14.000 file in questione abbiano mai raggiunto i server di Uber e la posizione di Waymo secondo la quale il nostro sistema LiDAR multi-lente sia lo stesso mono-lente impiegato da loro è chiaramente falsa. Se Waymo avesse realmente pensato che Uber stesse utilizzando i suoi segreti, non avrebbe aspettato più di cinque mesi per muovere le proprie accuse. Waymo non ha i requisiti per un provvedimento inibitorio, che andrebbe a soffocare l’innovazione e la concorrenza.
La risposta di Waymo non si è fatta attendere ed è giunta per mezzo di un comunicato firmato da una portavoce. La divisione di Alphabet fa riferimento sia alle componenti hardware integrate nel sistema LiDAR che alla documentazione depositata presso lo stato del Nevada per ottenere i permessi necessari a condurre i test delle self-driving car.
L’affermazione che Uber non abbia mai consultato alcuno dei 14.000 file rubati è ingenua, nel migliore dei casi, ammettendo che l’azienda non abbia pensato di cercarli nel luogo più ovvio: i computer e i dispositivi posseduti dal capo del suo programma self-driving.